Dell’assenza di cori spontanei in Sicilia

Un coro è un insieme di persone allegre: un’unica voce, vicinanza fisica, relazioni strette. Una tale condivisione potrebbe venire in soccorso in varie evenienze da ultimi tempi, a riscaldare animi gelidi, rinsaldare amicizie. Non sia mai che sopraggiungesse il buio assieme al grande freddo dell’inverno, niente di peggio di un blackout, stop a elettricità, riscaldamento, bancomat, cibo. Credo che cantare non ci salverebbe del tutto, sarebbe tuttavia di conforto; dico stringerci in coro, qualcosa di avvezzo al proverbio, non al tetro “Mal comune mezzo gaudio”, penso piuttosto al severo pragmatismo di “Chi vive sperando, muore cantando”, oppure all’altra versione “Chi vive contando, vive cantando”. Mi diceva mia madre da piccola “Non contare le stelle”: fa sorridere oggi siffatto consiglio, tutti affaccendati a tener contabilità di cose ben più tristi: soldi, debiti, malati e quant’altro. Anche nell’Apocalisse mi pare non manchino cori, suonatori di cetra che si esibiscono davanti al trono dell’Agnello accompagnandosi nel canto: un coro angelico, per forza. Peccato che nessuno possa intenderli, a parte i redenti della terra, ben pochi stando alle Scritture. A parte quest’incursione nei Sacri Testi, il coro mi fa venire in mente le società degli insetti, la danza delle api ordinate, per esempio, in cui il molteplice si fa Uno, voce all’unisono, un unico organismo, movimento simbiotico che annulla le differenze, oppure le supera per diventare qualcos’altro: l’unione fa la forza, si dice così, giusto? Eppure, noi umani non siamo insetti, questo è ovvio, e, peggio ancora, probabilmente sto divagando e scansando il punto, quello che avevo posto alla vostra attenzione: perché non ci sono cori spontanei in Sicilia? Non saprei, a essere onesta non ne so nulla, mai interessata all’argomento; non credo nemmeno di aver mai fatto parte di un coro, alle scuole elementari, forse, oppure in chiesa, i pochi anni che ho frequentato l’oratorio, da bambina, per sentirmi parte di un gruppo: non mi è andata troppo bene se a malapena ricordo.
A quanto pare, non c’è una vera tradizione in Sicilia in fatto di cori spontanei. Però mi viene in mente il canto polifonico del Venerdì Santo, “lu Lamentu”. E ancora lì ritorno. Sembrerebbe proprio sacra la connessione che si viene a creare all’interno del gruppo canterino, divina, non c’è separazione tra le parti. E di certo sono fuori strada: trascuro il carattere spontaneo, popolare, liberatorio, talvolta goliardico del coro spontaneo non di rado associato a costumi tradizionali, libagioni e spirito allegro. No, in Sicilia non c’è nulla di tutto questo. Perché? Forse non abbiamo mai avuto molto da cantare, oppure sarà che quello siculo è un popolo d’individualisti, chi può dirlo. Che generalizzazione, potrebbe obiettare qualcuno. E i balli della tradizione popolare allora? A pensarci bene, col movimento è più semplice mettersi d’accordo, invece il canto presuppone il parlare, e nella Patria di “ogni testa è un tribunale” improvvisare un coro spontaneo parrebbe un’impresa pressoché impossibile. Per un popolo che non ha un dialetto unitario, è perfettamente plausibile non aver sviluppato alcun coro spontaneo, diffuso o locale. L’accordo che è il senso del noi non avviene. Sicuramente non ho visto nessuno cantare quest’estate, nemmeno abbracciarsi: vietato per legge. Nessun contatto fisico, connessione proibita. Alla mia prossima visita in Sicilia intonerò un coro qualunque, in solitaria. Nel dialetto bergamasco, ovviamente.

Giusi Sciortino

In foto La scuola di Atene di Raffaello Sanzio, affresco, 1509-1511, Stanza della Segnatura, Musei Vaticani

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