MICROPSICHIA

Micropsichia. Schegge di rame (Prova d’autore, 2013) è la raccolta poetica di Luigia “Pathos” Ferro, poetessa che si è congedata giovanissima dalla dimensione corporea. Cercate questo libro, leggetelo, troverete vera poesia, quella che come diceva Emily Dickinson ti scoperchia la testa. È una poetica dalle intenzioni dichiarate fin dal titolo quella di Luigia “Pathos” Ferro: la parola tramite piccoli frammenti sfolgoranti di natura emotiva elabora una metafisica dei «bassi sentimenti» (lo afferma la stessa poetessa in postfazione), “micropsichia”, per l’appunto. Le più varie sfumature delle emozioni (Pathos) vengono rese in un gioco di specchi e riverberi in cui tutto si sdoppia, il sé si confonde col distinto e la ricerca dell’essenza dell’uno presuppone quella dell’altro: «Tra le strade sacre della città / lo sgranare volti / come rosari / è, per me, vita. / Moltiplicando / i miei occhi a ogni riflesso / innalzo volte e cupole. / Incrociando i vostri universi / passanti distratti, fratelli, / edifico chiese / libero mondi.» Che dire? Alchimia, fascinazione del mistero. Mistica delle cose piccole e delle alte. Il collante delle liriche è proprio l’anelito verso il divino «Burattinaio», quell’Assoluto «goccia pesante dell’oro / Un solo unico cerchio» al cui cospetto l’unità pensante minima, corruttibile, ovvero l’essere umano rimane atterrito, specialmente nella giovinezza, non il periodo più lieve dell’esistenza, tutt’altro: «pesano anche vent’anni». Affiora la nostalgia dell’amore (non per niente il rame è connesso a Venere, pianeta simbolo dell’amore), quello romantico non del tutto conosciuto e quello materno, e poi la fragilità, la difficoltà a staccarsi dal mondo ovattato dell’infanzia. Intanto s’insinua la tentazione di squarciare il velo tra l’esistenza e l’eterno. «Preghiamo assieme» implora la voce che anima queste pagine strutturate in una cornice simbolica fatta di “salmi” “colonne” e “quadranti”. Con grande misura e naturale grazia si dosano variazioni ritmiche, modulazioni sonore, assonanze e allitterazioni; i molteplici riferimenti classici (traccia di precoce erudizione) vengono intersecati nel presente difficile e oscuro in cui tutto è svilito, perfino l’afflato sublime di «Artisti rinchiusi nell’inadeguatezza». Ma c’è qualcosa di più ineffabile che ipnotizza il lettore in questo esoterico salmodiare. Di ineffabile e sconvolgente. È lo sconcerto nella scoperta della comune parabola discendente dei mortali, nel presagio di un altrove che si apre come un abisso sull’anima di creatura finita, «Morta, perché morto il padre di questo corpo», mentre «all’anima non importa» dei caduchi accidenti dell’immanenza e, nonostante tutto, persevera nel suo tentativo di stabilire il proprio primato sulla fallacia della carne. L’Uno, terribile nella sua imponderabilità, causa del «suicidio di ogni nome», può condurre all’ossessione del male oscuro, il più grande, ciò che gli umani chiamano demone. Ma c’è molto altro in questa micropsichia: la meraviglia della luce, lo spirito che vola alto, l’unione nella fratellanza, gli affetti. L’anima danza ballerina, in cerca d’armonia. Per contrasto, può risultare ancora più intollerabile il pensiero che tanta bellezza possa essere intaccata da orrori, anomalie, vernici dannose e tenebre. Ecco la meditazione: tutto è confuso, sempre inconoscibile, Essere e Niente, Uno e Molteplice, Fuori e Dentro. Per un attimo sfuggire all’illusione del reale e all’abominio del nulla è possibile, ma bisogna pagare un prezzo «non v’è un Dio che non ami / per questo cadrò». Rimane la testimonianza, la sacra fiamma di «un infinito ampio come niente» che è la Poesia.

Giusi Sciortino

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