Poscienza: quel legame tra poesia e scienza

Trovare nella cassetta della posta questo “Poscienza” (Il ramo e la foglia edizioni, Roberto Maggiani, 2024) con il segnalibro messo (casualmente, ma esiste il caso?) in corrispondenza (again) di un testo dal titolo “Il segno”. Po(esia)scienza, la copertina da sola illustra bene il contenuto del testo ricorrendo agli insiemi, nel mezzo di scienza e poesia “esia”, quindi “poscienza”. Gli intenti sono quindi ben illustrati: fondere due mondi apparentemente distanti. Ma davvero scienza e poesia sono così lontane? No, nel passato almeno non lo era, basti pensare al legame nel pensiero dell’antica Grecia tra le prime intuizioni sull’atomo e la filosofia (penso a Parmenide, Democrito, Platone e al neoplatonismo), rapporto più tardi indagato in “L’universo invisibile. Storia dell’infinitamente piccolo dai filosofi greci ai Quark”, saggio di Asimov, scienziato prestato alla letteratura le cui intuizioni oggi sembrano essersi avverate in merito a robotica intelligenza artificiale e non solo. Viaggio di contemplazione e riflessione alla scoperta di quell’universo per Maggiani “tasca vuota/ in cui s’infila una mano generosa” o ancora quell’infinito a cui appartiene ogni pensiero e che “converge a un albero o una rondine”. Sparse nel libro non solo riflessioni alte, cosmi e stelle, derivate e integrali, ma anche il quotidiano: soldi, amori ordinari, spezzoni di dentifricio allo specchio, sforzi necessari, partite di calcio e gatti. Del resto, tutto può tendere verso quella primaria forma espressiva propria dell’umano chiamata poesia, il cui scrivere “è arbitrario/ tanto quanto mangiare una caramella”. Belle poscienzìe, luminose, profonde, ironiche, vitali, non struggimenti, ma “scossoni al cervello!!!”. Operazione riuscita, a mio avviso. In prefazione al libro ci si chiede di cosa si occupino scienza e poesia: dei fatti umani. Ovviamente, un’opera concepita come libro, con un’unità tematica e stilistica, non un’accozzaglia di pensierini o componimenti slegati tra di loro, un vero libro, insomma. Sfidare i confini tra scienza e poesia può sembrare audace e provocatorio, e lo è di questi tempi; non sarebbe d’accordo Nietzsche che nella sua “La gaia scienza” parla di pregiudizio in favore della scienza come tecnica in tempi in cui ogni fiducia è riposta nel materialismo. Nietzsche afferma anche che la scienza sconfessa se stessa se si nega la possibilità, anzi, la necessità di mettersi continuamente in discussione attraverso “l’istinto del dubbio, l’istinto della negazione, l’istinto dell’’attesa”, in una parola, scetticismo, scepsi. Dunque, un concetto rigido quello di scienza come riduzione dell’ordine universale a leggi fisse e immutabili? Naturalmente, la scienza è piuttosto un metodo d’indagine mutevole nel corso della storia dell’uomo, un tentativo di osservare e descrivere il mondo, individuare in esso leggi da poter mettere in discussione per evoluzioni ulteriori. E Maggiani lo sa molto bene essendo un fisico (lo scopro dalla bio), credo potrebbe spiegare meglio di tanti improvvisati le novità della fisica quantistica, magari avrà letto il classico di Fritjof Capra “Il Tao della fisica” che mette in relazione concetti delle religioni e fisica. Perché non fare lo stesso con scienza e poesia? La nostalgia e la meraviglia a cui Maggiani ci invita sono le stesse che spinsero l’uomo in ogni tempo a esplorare le profondità dell’universo e della nostra stessa esistenza. Dunque, il “poscienziato” (dell’autore del libro la definizione) con le sue “poscienzìe” suppone che “il cosmo nasconda certi segreti/ nella mia costellazione di tormenti”. E così la poscienza è quell’intersezione dove s’incontrano la precisione della norma e la mutevolezza della riflessione, dove la mente oscilla tra il caos e la calma, tra un minimo e un massimo qualsiasi. Tutto ciò la poesia di Maggiani lo fa con cura e consapevolezza (togliamoci dalla testa l’idea di una presunta naturalezza del poeta: ci vuole talento, ma da solo non basta). Compito arduo quello di fare buona poesia; facile perdere il bersaglio quando si cerca d’innovare: dopo gli esperimenti dell’Oulipo, la scrittura asemica e tanti altri esperimenti, cos’altro rimane? Azzarderei una risposta: il crearsi uno spazio personale, ché niente, soprattutto in letteratura e in fisica, si crea dal nulla e si distrugge totalmente. Lecito che il poeta rivendichi la libertà di ricorrere alla forma poesia che più gli aggrada, senza seguire mode prestabilite e limiti e precetti da scuola di scrittura buoni forse a sfornare poeti buoni nemmeno per il lunedì. Non è questa una poesia dai toni alti, o meglio, è una poesia che non disegna l’indagine del quotidiano, che adotta un tono sarcastico, talvolta, orrore degli orrori per certi puristi, ma lo fa con sagacia, ironia, garbo e rispetto della Parola, sempre misurata e giusta, in uno stile che adotta rime, allitterazioni e certi deliziosi calembours sornioni o immagini e situazioni surreali, per esempio “sarei uscito in pigiama [dalla finestra]/ {il pene gonfio di rabbia}/ e ci saremmo azzuffati/ :lanciando ragnatele/ attorno a quel(l_l)ampione”.

Diversi richiami agli esperimenti della poesia visiva, cancellature, giochi, inserzioni di simboli matematici, espedienti attraverso i quali l’autore esplora temi diversi, anche civili, spaziando dalla deformità del potere, alle disuguaglianze sociali fino all’universalità del fluire del tempo e dell’umano stupore di fronte alla sinfonia della natura e dell’universo che nessuna legge e formula basterà mai a descrivere adeguatamente; tra l’altro, potrebbe mai l’infinito essere colto se non per approssimazione? Proprio come la poesia, sfuggente a ogni definizione categorica ma praticata universalmente da secoli. Poesia da ricercare in quell’intersezione dove s’incontrano la precisione della norma e la mutevolezza della riflessione, dove la mente oscilla tra caos e calma, minimi e massimi celati in leggi di volta in volta mutevoli, precise o arbitrarie, misteriose, chiare e oscure. Ciò che non si perde mai di vista è la complessità del mondo che ci circonda.

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