Fratelli d’Italia

Ci aveva visto giusto Arbasino profetizzando: «Il principale compito della narrativa sarà di assistere, consolare, soccorrere»? È o non è così? A chi conosce bene le tendenze attuali l’ardua risposta. Di sicuro, da decenni abbiamo pacchi di romanzi dai buoni intenti (prima ancora che venissero sdoganati attraverso ogni media questi benedetti buoni intenti) e un bombardamento di messaggi che, pur apparentemente trasgressivi, in fondo sono conformisti anche loro, di più: moraleggianti.

Ma cos’è questo sterminato Fratelli d’Italia?

L’autore stesso ci offre la chiave di lettura del libro: si tratta di «Romanzo di conversazioni immaginarie» o ancora «Romanzi-saggi sul romanzo-viaggio di formazione», e ancora «Culo o cruccio, esso è una metafora. Una grande metafora della piccola e media borghesia romana».

Come si chiamerà questo romanzo che Antonio (uno dei tanti, a mio avviso, alter ego dell’autore che si muovono lungo queste pagine) consegnerà ai posteri?

Le Italiche Fatiche, Le Mura e gli Archi oppure Le Piaghe Mortali? No: Fratelli d’Italia. E su questo non ci piove.

Nulla a che vedere con patriottismi nuovi e storici, invece una sorta di viaggio in Italia e oltre, a tratti caustico come quello successivo di Ceronetti, esplosivo, pieno di vitalità che traspare sia dai contenuti che dalla forma.

Il tema del viaggio o «vacanza come trama narrativa portante» a cui si mischiano quelli «della Formazione» e «dell’Apprendistato» diviene pretesto per continue digressioni e voli pindarici. Irriverente già dalle intenzioni, questo resoconto di «Pellegrinaggio nella Culla della Classicità» si configura come itinerario mentale e sentimentale in senso non convenzionale. Del resto, «L’Italia si chiama Amore: non si può più cambiare, se lo devono tenere, vi dovrete divertire. E la storia, bisogna che sia assolutamente estiva, molto sentimentale. Una grande vacanza dolce-amara», pennellate che rendono bene le atmosfere del libro, affresco di un’epoca fervida e piena di attese. Nessuna trama precisa, siamo in presenza di un romanzo postmodernista colmo di calembours, giochi di parole (giocare a stravolgere il senso con le parole è arte eccelsa qui) e prove di erudizione (forse precoci, vista la giovane età dell’autore), avanguardia pura, riflessioni e conversazioni sui libri elaborate da chi, sicuramente, aveva letto tutti i libri del mondo.

Le vicende di Antonio, Jean Claude e degli altri ragazzi (azzardo: diversi alter ego di Arbasino?) sono narrate con vena dissacrante e audacia in una forma ibrida e innovativa (almeno per il periodo), multiforme, frammentaria, stratificata, caratterizzata da commistione di stili, accumulazione, ibridazione. Tante le frivolezze e le curiosità, leggerezza che non scade mai in banalità, materia borghese di classe medio alta che non è detto faccia male (non dimentichiamo che per secoli la cultura è stata appannaggio di clero e nobiltà), d’altronde, per una volta concediamo che «sembra dimostrato che chi fa una vita di mmm… esige una letteratura di mmm». Critica sociale? Non sembrerebbe lo scopo principale di quest’opera, che comunque è tutt’altro che vacua o, peggio ancora, ingenua: «Crisi esistenziali, aziendali, macchinali, impersonali, fondamentalmente tutte uguali […] sono preoccupato per l’Asia e per l’Africa e per l’America del Nord e del Sud […] dopo la chimera littoriale e il miraggio stalinista e l’utopia cattolica ma senza lusinga democristiana ci sono proprio voluti i carri armati sovietici». Perfetto.

È semmai quella di Arbasino una critica implicita che investe praticamente tutto attraverso l’ironia, la satira; non si muovono accuse, non c’è intento moralizzante o civile che, diciamolo, non dev’essere lo scopo primario dell’opera letteraria; le cose investite dall’attenzione del narrante, o saggista, sono sviscerate e mostrate nella loro bellezza, oppure nell’ipocrisia, nell’inutilità, nella lordura. Romanzo fiume o ancora mondo (oppure saggio, fate voi) borghese, un tantino snob, indubbiamente, intelligentissimo; c’è di tutto in Fratelli d’Italia, dialoghi infiniti, parti più propriamente narrative e poi lunghe descrizioni come la disperante rappresentazione di Napoli che mi riporta alla mente La pelle di Malaparte, dalla Seconda guerra mondiale direttamente al boom economico anni ‘60.

Ma ciò che colpisce di più in Fratelli d’Italia è la lingua preziosa, piena zeppa di forestierismi, termini stranieri, arcaici, incredibile come venga portata avanti per quasi 1400 pagine. Arbasino si sbizzarrisce coi neologismi, soprattutto inglesismi (avanti sui tempi dice “social” a proposito di Antonio), costruisce dialoghi di grande finezza, quasi spezzoni di monologhi, a volte deliranti, lucidissimi deliri però, colti e arguti. C’è un lavorio ossessivo sul linguaggio, una serie vastissima di informazioni sulla cultura del tempo e su quella dell’autore (arte, letteratura, musica, cinema, attricette, soubrette, star di Hollywood e caserecce, critica letteraria e letture, pittura, architettura, di tutto e di più, perfino troppo) e tanto divertimento, una sarabanda, «sarabanda delle Sventate, Sbandate, Sfasate, Sguaiate, Smodate, Spiantate, Sfocate, Strapazzate, Spudorate, Sgangherate, Svergognate, o Stempiate».

All’intento civile di tanta letteratura di allora, si preferisce il piacere di vivere e divertirsi, nulla di più scandaloso: il fascino della vacuità, la cultura come vizio, pure quella che scrive cosine insolenti leggerine “proustine” di certi borghesi con aspirazioni e inibizioni piccole (non risparmia nessuno il sarcasmo di Arbasino, nemmeno se stesso e gli intellettuali svogliati sempre in vacanza), un certo citazionismo delizioso e pure «Un dolore cosmopolita» che sa di piacere vuoto, in pratica tutto ciò che si configura come opulenza e lusso, anzi «voluttà e crudeltà, molto lusso, calma niente». Voluttuosa, appunto, folle, eccessiva, cerebrale e sensuale al tempo stesso, raffinata, sfacciata e molto altro ancora è la scrittura di Arbasino, il Proust giocoso italiano che precisa: «C’è differenza tra le madeleines e la merda ingerita a forza».

Se mi sento di consigliare Fratelli d’Italia? «Not my cup of tea», potrei dire, per l’immensità di citazioni e riferimenti che possono far sentire un certo senso di inadeguatezza, ma per gli stessi motivi si potrebbe parlare di capolavoro: sfido a trovare qualcosa di tanto maestoso, con uno stile, una scrittura e una lingua che sia all’altezza. Lo consiglierei dunque? Non agli allergici alle letture che pretendono uno sforzo, a chi scrive pensando al target di riferimento, ai buoni intenti, a chi segue le mode del momento. Per gli altri dipende, non mi assumo responsabilità: ognuno legga ciò che vuole, soprattutto se si tratta di misteriose perle del passato. Di sicuro, Alberto Arbasino dovrebbe essere citato più spesso quando si parla di romanzo-mondo, romanzo-saggio, romanzo-ibrido, destrutturato, postmodernista, di avanguardia, forme che pure sembrano avere estimatori in Italia. Libro non per tutti, perfetto per questi tempi.

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