C’è stato dopo Cognetti tutto un fiorire di romanzi sulla montagna, presenza sacra e viva. In questo caso parliamo della Montagna per antonomasia per i siciliani: l’Etna. Un romanzo con le sue apprezzabili peculiarità questo Il sangue della montagna (La Nave di Teseo, 2022) di Massimo Maugeri, complesso nella trama e nella struttura, con salti temporali che attraverso il lavoro certosino dell’autore intento a costruire una trama solida e credibile inserendola in una struttura stratificata rivela l’ambizione d’inserirsi nel cosiddetto filone del romanzo-mondo. Costanti le riflessioni su società ed economia, l’utopistica “economia umana”, senza nessun populismo, niente luoghi comuni come “poteri forti”, si mantiene sempre e comunque equilibrio e buon senso, fin troppo, forse: le rivoluzioni socio-economiche non sono contemplate e nemmeno quelle linguistiche in queste innumerevoli pagine. Un senso di sconfitta sembra prevalere nelle vicende umane raccontate, così minime rispetto alla maestosità della natura e all’ampiezza della storia. Lo stile non presenta alcun preziosismo e la lingua piana si pone come quotidiana, colloquiale, standard, non letteraria. Da un capitolo all’altro cambia il punto di vista che alterna la voce narrante, una volta interna, un’altra esterna: non ho potuto fare a meno di pensare ai Detective Selvaggi di Bolaño che porta agli estremi questa scelta dando vita a un romanzo affascinante e imperdibile. Qui il significato di quest’elemento sarà funzionale alla trama che si svelerà al lettore a fine libro. Il riferimento all’immaginario “Riflessioni estemporanee di un pragmatico sognatore” (sorta di diario segreto continuamente evocato) sembra riprendere l’idea pasoliniana di Petrolio che nelle intenzioni originarie avrebbe dovuto essere un metaromanzo filologico, un’edizione critica di un altro testo; ciò detto, non mi spingerei oltre con le analogie.
Il sangue della Montagna è pervaso da una certa nostalgia sognante attaccata alla tradizione del passato, il mito di un’era migliore di quella presente incarnata dall’intagliatore di pietra lavica e poeta Don Vito Terrazza (scomparso, appunto, come sempre fanno i bei tempi) che ritiene “la poesia è istinto, non calcolo” (personalmente, non sono d’accordo né con l’uno né con l’altro termine in cui viene posta la questione: “calcolo” ha ovviamente un’accezione negativa, mentre la concezione di una poesia spontanea per me è quanto meno ingenua e lontana dalla realtà). A proposito, interessante l’esito poetico dialettale attribuito al personaggio che in italiano però perde di forza. Un finale triste per tutti i personaggi coinvolti che conferma il tono crepuscolare generale del romanzo, volutamente (credo) monocorde perfino quando parla di morte, follia, visioni, fantasmi e altre disgrazie.
Giusi Sciortino