Quando racconto di me dico di aver sempre scritto poesia, è vero, dovrei però precisare: ho sempre scritto, punto. Cosa, non posso dire. Cos’è la poesia? Cos’è la prosa? Quali le differenze? Si è dibattuto l’argomento fino allo sfinimento e ancora la partita non è conclusa. Per iniziare, sono andata a vedere cosa dicono alcune fonti, per così dire, ufficiali, e ho trovato questa definizione:
“La differenza principale è che l’opera di poesia è scritta in versi di varia lunghezza, mentre l’opera in prosa è scritta in righe lineari per esteso. Mentre le poesie si dividono in strofe, le opere in prosa si dividono in paragrafi.”
Abbastanza riduttivo, credo. Conosco molti cosiddetti “poeti” che, nello scrivere, vanno semplicemente a capo più spesso. Altri infarciscono fino alla nausea i loro scritti con trite e ritrite similitudini astronomiche o paesaggistiche: cielo, stelle, fiori, prati, ruscelli e altre bucoliche soavità. Alcuni, i più “studiati”, si inerpicano in costrutti sintattici così ardui da costringere e restringere fino a farla inaridire la pulsione emotiva del verso.
A una prima lettura, Visioni d’abbandono (Transeuropa, 2022) si potrebbe istintivamente definire prosa poetica, narrativa bagnata in poesia, e non sarebbe un difetto, ma, in realtà, così non è. Certo, io non possiedo la preparazione tecnico-letteraria per redigere una recensione vera e propria, posso solo esprimere il mio pensiero di donna amante della poesia, della letteratura, partendo da quel poco che so e che faccio come scrittrice a mia volta, scrittrice si fa per dire.
Lo stile di Giuseppina è lineare, a tratti discorsivo, arricchito da termini ricercati forse desueti che testimoniano altresì la profonda preparazione letteraria, la capacità descrittiva e quel delicato raccontare di un dolore travestito spesso di sarcasmo frutto di sapiente e pungente ironia. La trasposizione nel quotidiano esalta quei gesti che sembrano appartenere a chiunque, eppure, diventano atto poetico, grazie alla personalissima sapienza artistica di Giuseppina.
“Ti eri appena trasferito
nella mia casa e mi tenevi il muso
per non so quale ragione, forse non
averti aiutato a trasportare la valigia.”
E poi, la parte più introspettiva, quella dei ricordi e del rapporto madre-figlia descritto mirabilmente in questo passo:
“Arrivano al crepuscolo iperborei
introversi, tipo questi: abitavo
in Via delle Betulle – ironia
della sorte non c’era manco un albero.
Io non ero graziosa e non stavo
mai ferma, tiravo su col naso e
mangiavo troppi dolci. Mia madre
invece era bella, portava capelli
corti e gonne a portafoglio.”
E poi l’amore, tormentato, agognato, masticato, vissuto, perduto, ironizzato per contenere la sofferenza, e digerito con intelligenza e forza.
“Ho pregato – non lo facevo da anni –
mentre speravo di farti sorgere
dai piedi del letto. Ci ho provato e
riprovato ma non è sbucato nulla.”
Per concludere, credo che, nell’attesa di rinvenire la giusta definizione di Poesia (sempre che possa essere racchiusa in una definizione), sia importante leggere, leggere poesia, leggere prosa, leggere sempre. Leggere opere come questa, soprattutto, per stimolare cervello, cuore e anima, per aprirsi alla comunicazione, per sviluppare senso critico, la spontaneità, affidarsi alle emozioni senza timore di dimostrare di essere quello che si è.
Roberta Tantillo