Il famoso regista Steve McQueen (premio Oscar con 12 anni schiavo) in esposizione al Pirelli Hangar Bicocca con le sue installazioni di videoarte gioca con le contrapposizioni: bianco/nero, luce/ombra, colore/suono. La condizione dei minatori della più profonda miniera d’oro del Sudafrica dove le temperature possono raggiungere i 70 gradi è il tema del film Western deep, un’ottima riflessione per un altrimenti inutile Primo Maggio.

La telecamera mi conduce attraverso asfittici ascensori che s’incuneano fino al centro della terra per restituirmi fotogrammi infernali di terra fuoco e tenebra in un alternarsi claustrofobico di luci e suoni metallici; gli uomini mostrati nient’altro che pezzi di carne sofferenti, disumanizzati nella pratica che nobilita chi non la frequenta: il duro lavoro. Solo la faccia più raccapricciante del capitalismo in un contesto in cui, di fatto, vige ancora l’apartheid. Cerco di prendere appunti col telefono, ma qualcuno mi bussa alle spalle: non è possibile fare riprese. Non le sto facendo. Esco dalla saletta con un leggero senso di nausea, l’allestimento è volutamente cupo, a parte l’enorme sole di Sunshine State che coi suoi bagliori squarcia l’oscurità; il frastuono prodotto dalle pale dell’elicottero che circumnaviga perennemente la Statua della Libertà incombe sinistro sull’ambiente. Se il regista voleva trasmettermi il disagio, c’è riuscito perfettamente. Visito la mostra su spore, muffe, funghi e altre forme minime di vita e, infine, la meravigliosa permanente di Anselm Kiefer: I Sette Palazzi Celesti.

Si tratta di costruzioni in cemento armato sui quindici metri d’altezza ricavate sovrapponendo moduli di container che si slanciano verso l’alto dominando un paesaggio post-apocalittico. La visione industrial-metafisica sarebbe ispirata a un testo cabalistico. Tutto ciò mi riporta alla mente un mio scritto:
«Non conosco questa città, non so neanche se sia di questo mondo. Potrebbe essere un posto che ho già visto ma di cui ho perso il ricordo. Il paesaggio è moderno e desolato. Niente ritmi frenetici, anzi, tutto va a rilento. Le superfici dei palazzi sono irregolari e tutto è storto e sbilenco. Grigio soprattutto. Le luminarie brillano, oppure sono i fuochi ai margini delle strade, tuttavia nella città sconosciuta le luci non illuminano e i fuochi non riscaldano.» (Da L’obiettore di coscienza, G. Sciortino, Eretica edizioni, 2019)
Rimango incantata, l’insieme è suggestivo, sconsolato e sognante allo stesso tempo. “Questo quadro ricorda Cuzco”, dice una donna dai lunghi capelli rossi a qualcuno che non riesco a distinguere. Non ci sono mai stata. Mi volto e di fronte a me un’enorme tela con la sagoma di un uomo di spalle, solitario, un puntino contro la natura sconfinata e muta.
Giusi Sciortino
