«Il dio che è sempre al termine,
il dio creato, e ricreato e ricreato
con grazia e senza sforzo. Il Dio.
Il nome conseguito dei nomi.»
Sono venuta a contatto con Animale di fondo (Passigli, 2001, traduzione di Rinaldo Froldi) tramite un poeta spagnolo. Juan Ramón Jiménez, Premio Nobel per la letteratura nel 1956, intende l’attività poetica come anelito verso l’assoluto, un divino “desiderato e desiderante” (dios deseante y deseado) che cerca nelle cose, nella poesia, in sé. Passando da un esilio all’altro, Jimenez non smette mai di tentare di penetrare il mistero del tutto, tra natura e spiritualità, spinta estatica e riflessione. Leggendo queste liriche rarefatte (c’è anche la versione originale) e nostalgiche, dalla forma essenziale e dal tono sofferto si avverte immediatamente che il poeta sceglie la via della parola come esperienza autentica di vita inscindibile da ogni sua altra attività. La poesia diventa preghiera ora aprendosi all’esterno ora insinuandosi nelle pieghe più profonde del sé. Mi viene in mente David Maria Turoldo, altro poeta autentico che non rinuncia mai a interrogarsi e ad aprirsi al dubbio, all’incertezza di essere terreno, animale di fondo per Jimenez.
«Ma tu, dio, sei tu pure in questo fondo
e questa luce vedi, da altro astro venuta;
tu esisti e sei
il grande e il piccolo che sono io,
in una proporzione che è la mia,
infinita, diretta a un fondo
che è il pozzo consacrato di me stesso»

[…] Juan Ramón Jiménez qui) […]
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