Della violenza Una guerra di nervi

È corretto operare ancora una netta distinzione tra poesia e prosa? Ci risponde con Della violenza. Una guerra di nervi (FaraEditore, 2017), opera dall’atmosfera oscuramente visionaria in linea coi nostri tempi, Fabio Orrico, critico, cinefilo, scrittore e poeta che approda a una forma spuria dove versi più misurati si succedono a brani in prosa. Lo stile mostra particolare attenzione alla creazione di un ritmo riconoscibile ottenuto da un curato alternarsi di pause, cesure e cambi di tono e registro. Già il titolo allude alle tematiche affrontate (se non altro suggerite) dal testo, ovvero la violenza psicologica, o spirituale, forse: è su tale campo che si gioca la guerra, una guerra di nervi, continua, necessaria a legittimare (oppure delegittimare, non importa) l’esistenza, proprio come dichiarato in esergo: «Noi occupavamo lo spazio che ci / era consentito occupare. Di più / non avremmo mai osato chiedere». La guerra è quel silenzioso dramma che si consuma al di sopra di occhi ciechi, perennemente assonnati. Questa mi pare la chiave di lettura principale, ammesso che cercarne una sia funzionale alla corretta fruizione del testo. Mi pare di essere però sulla buona strada, dato che lo stesso poeta (o una delle sue voci) parla chiaramente di «epica della mia distruzione», proprio la sua, con tutto ciò che quest’epica e questa distruzione possano significare e comportare. Immagini e similitudini feroci richiamano la dialettica della battaglia, di quell’inquietudine data dall’esperienza brutale che è la vita: sono «asini a spasso nelle uova»; animali scuoiati; macerie e cadaveri scansati pure dagli sciacalli; corpi umiliati, imperfetti, inadatti e alla natura animale e a quella divina. Vano ogni sforzo di bonificare oppure pestare lo stivale/Stivale. Umanità fatta di pezzi di carta, occhi luminosi che scrutano nel buio, nient’altro che un esercito di pazzi. Non è consentito stringere alleanze o coltivare amori, si ripudia a priori la violenza benefica dei sentimenti, l’esplosione che l’Io poetico sembra sconoscere. Si procede per sensazioni, oscure visioni metropolitane e abbozzi narrativi dalla forte componente irrazionale ed emotiva. Ogni cosa si mescola e dissolve in un sonno che risucchia perfino le flebili fiamme della passione, i brandelli di pelle chiara che fuoriescono da calze smagliate, l’amplesso violento nella voce di una donna – effetto di orgasmo o droga pesante? –; sotto la pelle, pulsanti i nervi dell’animale. Eppure, nonostante l’accavallarsi di reminiscenze, ricordi, sogni, suggestioni cinematografiche (I cancelli del cielo), l’ordito poetico risulta omogeneo. Nell’assalto di pensieri, rimorsi consiste la vera battaglia, persa ovviamente. Per di più: giocata da chi?

«Che ne sarà di me?», s’interroga l’io poetico brancolante tra «aviatori fantasma», frantumandosi e scomponendosi in minuscoli spiragli di luce. Un tu raccolto dalle macerie, che si eleva moltiplicandosi in un canto corale in più tempi per coagularsi attorno al comune dolore impotente che pervade ogni cosa, persino l’aria: «Noi sobbalziamo / solo a sentire tintinnare le monetine in / tasca, come insetti terrorizzati da giganti». La quotidianità col suo inutile lavorio distoglie dagli ardori della guerra (qualunque essa sia) e non permette la pace. Nemmeno il sonno ristora i soldati mancati, impauriti, piccoli disertori dell’unica battaglia che avrebbe potuto se non redimere almeno forgiare uomini.

Il poeta è un osservatore allucinato, lo sguardo ancorato al reale, senza alcuna aspirazione civile e nemmeno amorosa, un reduce piuttosto. Nessun Dio da ricercare al di fuori della continua lotta per affermarsi ingaggiata dal sé. La salvezza impossibile ha la faccia spaventosa di un sacerdote che battezza cani. Del resto, la verità è che non c’è «nulla da decifrare, nulla da capire», piuttosto si guarda la coordinata priva di significato del tempo senza comprendere la «sofisticatissima struttura» oppure «macchina inesausta» della vita. L’Assoluto non è consolatorio, semmai un tempio/tempo inconoscibile dove gli uomini come condannati aspettano la propria ora intanto che streghe incolpevoli bruciano tra orrendi spasimi. L’idealista è passato per le armi assieme al suo ideale. Reato di pensiero. «Altroché giuramento / d’Ippocrate, qui è così caldo che tutto si / scioglie, tutto / precipita».    

Però forse qualcosa di vero, vitale, capace di dissetare queste bestie dai sorrisi umani ancora esiste: il sangue.

Giusi Sciortino

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