La vita agra 2.0

Un mio articolo sul capolavoro di Luciano Bianciardi uscito sul blog Zona di Disagio il 5 febbraio 2021, qui:

In certe cose Milano è rimasta identica a quella evocata da Bianciardi nel suo capolavoro La vita agra, è come se non fossero passati gli anni. Per esempio, ci sono sempre le stanzette in affitto, minuscole, ammobiliate, singole, doppie, triple, quadruple, carissime. A fine mese sottrai dallo stipendio affitto, condominio, canone ficcato nella bolletta di luce e gas (come se non ci fosse già abbastanza immondizia) e cosa resta? Hanno pure il coraggio di chiederti l’aumento, proprio ora! Incredibile. Eppure, si fa di necessità virtù, ci si stringe tra genti diverse, s’imparano le lingue a forza di pratica tra sconosciuti che condividono cucina, bagno, gioie e dolori, la vita insomma, ognuno in cerca di qualcosa di diverso, amore, successo, sopravvivenza lì nella metropoli europea che sa tanto di provincia. La pelota basca purtroppo non c’è più, scomparsa.

Vige ancora la legge aurea di cambiare lavoro solo dietro migliore offerta «e allora il padrone ti porta in palmo di mano, ma quando invece ti hanno buttato fuori, come vuoi che il padrone nuovo ti consideri qualcosa?». E dire che oggi c’è Internet, vero? Provateci voi senza amicizie e un po’ avanti con gli anni (dopo i trenta già lo siete) a trovare un annuncio tra la messe di proposte incomprensibili, ottenere il colloquio, sostenerlo e passarlo. Un terno al lotto. Chissà che ne direbbe Bianciardi degli articoli che riportano storie positive (a loro dire) di artisti o commercialisti diventati rider, ad alimentare il nuovo bacino di lavoro senza tutele, oppure delle vicissitudini di avvocati ingegneri e professionisti (giusto i medici si salvano) in fila nelle graduatorie ad aspettare un posto (precario) da supplente, se va bene, oppure da bidello, tutti a rincorrere il miraggio di un posto statale, quello che ancora oggi viene considerato l’unico realmente garantito. Intanto si prende quel che viene, mica si fa i choosy. Li ho visti quei lavoratori, i rider cioè, protestare per le vie di Milano, in centro. Chiedevano almeno di sfuggire all’odioso sistema di valutazione su portale da parte dei clienti e di non essere obbligati a salire al piano, non ferie malattie permessi. Devi essere customer focused o customer oriented, così di questi tempi avrebbe spiegato la vedova a un Bianciardi esterrefatto in cerca di occupazione nella piccola casa editrice. Si potrebbe fare un piccolo glossario delle espressioni e termini anglofoni che nascondono le grandi ipocrisie del mercato del lavoro odierno. Siamo tornati indietro, di molto. Ogni tanto mi vengono gli incubi, la iena ghignante che dice, insinua piuttosto: «Lei ha già trent’anni. Cosa vuol fare da grande?». Disintegrare questo genere d’ignobili oscure visioni e crearne di luminose, questo vorrei fare. Mi sono adeguata, ho vissuto tutte le storture del precariato, ho imparato a fare altro, mi è andata bene. Più dura per chi non rinuncia al sogno, fosse anche fare il lavoro per cui si è studiato, sudato, investito, che ne so, inventare, tradurre, “volgarizzare”, per usare lo stesso verbo scelto da Bianciardi. In realtà, non sono poi così sicura che non ci sia bisogno di umanisti, di umanità sicuramente, merce rara, in via d’estinzione.

In questa società schizofrenica gli appelli all’uguaglianza hanno il sapore di slogan, sembrano spot confezionati su uno specifico target, richiami inconsistenti all’esotismo che rivelano la loro trappola e cioè che la diversità è solo tollerata, se non demonizzata, non veramente accettata. Soprattutto se cerchi un lavoro devi avere esattamente quel tipo di curriculum, una certa immagine, aver studiato in quella città, condurre quello stile di vita altrimenti non vali un tubo, con buona pace del potenziale. Non è così? Salvo eccezioni e imprevisti di percorso, i vincenti (o classe dirigente che dir si voglia) sembrano tutti fatti con lo stampino: vestono uguale, comprano identiche cose, frequentano le stesse scuole, vanno in vacanza (insieme) negli stessi posti. In pratica, se nasci povero quasi sicuramente morirai povero, più dei tuoi genitori, dei tuoi nonni. Gli scenari futuri non sono incoraggianti, pure la tecnologia pare aver acuito le differenze sociali invece di accorciarle. La scuola, per esempio: se da piccola per poter studiare avessi avuto bisogno di una linea telefonica, di un computer, di un soggiorno prolungato all’estero, di un corso di sci probabilmente sarei rimasta analfabeta.

Se invece un lavoro già ce l’hai devi tenertelo stretto. Bisogna davvero fare attenzione, saper camminare, parlare in un determinato modo (la dizione!), mimetizzarsi, resistere, farsi accettare, a tutti i costi. Non sgarrare, fosse pure trascinare i piedi. Si diventa facilmente sospetti, si rischia di perdere il lavoro, farsi arrestare, portar via dai furgoni neri, a Milano specialmente, non soltanto negli anni Sessanta, anche oggi.

Conviene essere determinati, scegliere qualcosa in cui eccellere, essere competitivi e competenti, buoni venditori di se stessi, farsi sentire, instaurare relazioni proficue, ritagliarsi il proprio spazio, marcare a zona, altrimenti si è fuori mercato. Chi non sa muoversi, barcamenarsi è perso. È il giro che conta, la cordata, l’arte dei rapporti di comodo, la politica di bassa lega in cui primeggiano gli incapaci. Intelligenza sociale ed emotiva la chiamano: tutte favolette per dire che vige la legge del più forte, anche se forte vuol dire leccapiedi o meschino. E nonostante tutta questa scuola poi un bel giorno arriva la lettera di licenziamento, oppure la naturale scadenza del rapporto di lavoro (precario), o ancora l’accompagnamento all’esodo, la proposta di prepensionamento, quasi una liberazione, per un istante un sollievo. Diventi solo un nome da cancellare in un libro paga e poi l’illusione di rinascere a nuova vita chissà dove, nei sogni, probabilmente. Ricordo ancora l’omino scialbo, capo del personale, dirmi: «Se non ci siamo mai visti è perché lei è un’impiegata modello, ma purtroppo oggi devo darle cattive notizie». Lasciata a casa senza l’ombra di un motivo, capita anche quello. Sloggi senza tante storie e di te rimane una scrivania libera da disinfettare, i tuoi cimeli buoni come carta straccia. In uno dei miei personali spostamenti (zero disoccupazione e nessun tipo d’indennizzo, uno dei vantaggi dell’osannata flessibilità), nascosta tra le intercapedini della scrivania trovai una lettera d’amore, proprio così, sopravvissuta all’epurazione subita da chi mi aveva preceduto, arrivata a me per errore, mai ricevuta dal legittimo destinatario forse, chi può dirlo.

No, Milano non è cambiata molto. Tra le pagine de La vita agra ho riconosciuto le solitudini delle segretarie terree e dei ragionieri con le occhiaie durante le attese ai tram. «Che ci sono venuto a fare?», si chiede la voce narrante, alter ego dell’autore. Simili ieri e oggi le alienazioni di chi, anche dopo dieci o quindici anni spesi in questa città si sente un corpo estraneo. Ti chiedono: non sei di qua vero? No, rispondi, sono un alieno. A Milano devi essere bravo con la gente e lo stesso rischi di finire come Enzo, morto solo come un cane dopo aver passato la vita a costruire relazioni, trasportato al paesello, il feretro seguito dal fratello e da quattro malmaritate.

I «Torracchioni in vetro e alluminio» oggi sono più che mai scintillanti, però non c’è più la rabbia rivoluzionaria di un tempo, piuttosto la frustrazione, l’ambizione di un progetto di vita che non si realizza. Identici i rapporti di potere all’interno delle grandi aziende, le piccole e grandi meschinità. Succede davvero: un bel giorno qualcosa cambia, non sai cos’è successo ma, all’improvviso, non ti passano più lavoro, i colleghi non ti salutano più, magari ti hanno appioppato un nomignolo e nemmeno lo sai. Infine, ti tolgono il tuo lavoro, lo danno allo stagista, ti demansionano, ti spostano. Mobbing lo chiamano adesso. Sarebbe più corretto dire: guerra fra poveri o poveracci. Nuove parole per parlare dello stesso marciume. Il licenziamento con funzione provvidenziale per l’organismo aziendale che fagocita esseri umani e produce personale, beni da non immobilizzare ma far ruotare. Licenziamenti di massa, oppure incentivi all’esodo, ovvero tot soldi per togliere il disturbo. E parliamo dei più fortunati. Le macchine dovevano salvarci, restituirci il tempo liberato: non è stato così. Chissà cosa potrà lo smart working.

Bene faceva Bianciardi a diffidare dalla TV feroce (come la definì Pasolini) piazzata nelle case a imbecillizzare orde di agorafobici, oggetti di studio di nuove discipline demodossologiche. Rimane anche la vacuità di rapporti umani di facciata: cocktail e feste di famiglia, atteggiamenti furbi e servili all’occorrenza. I diversi rischiano di rimanere fuori, isolati, schiacciati, dei paria. Contano i soldi, dice Bianciardi, nella Milano dove son tutti buoni contabili, dalla commessa della latteria all’affittacamere che neanche dopo l’amplesso dimentica di vantare un credito nei confronti dell’amante. Le latterie non ci sono più e molte camere sono state convertite in monolocali: per entrarci tra mesi anticipati, caparra e commissione d’agenzia devi accendere un mutuo. Caccia fuori i soldi, su. E poi prova a trovare una casa senza una busta paga e viceversa. Milano è satura, così mi ripeteva l’ex collega. Ma il problema è più ampio, non riguarda solo Milano, ovviamente. Neanche le tragedie come quella alla miniera di Ribolla sono servite a cambiare le cose visto che di lavoro e della sua mancanza si continua a morire. I compagni puoi ancora vederli a qualche manifestazione, sembrano dei nostalgici anche se hanno solo vent’anni. Le conquiste operaie si sono perse e sarebbe dignitoso ammetterlo. Dal boom al collasso, dalla società dei consumi a quella digitale, nuove ingiustizie, incomunicabilità, solitudini per molti insostenibili.

Capita ancora di soccorrere un uomo per scoprire che il giorno dopo è morto. E non hai neanche il tempo di avere un rimorso che ti avvisano: sai quanta gente muore ogni giorno?

«Un ubriaco muore di sabato battendo la testa sul marciapiede e la gente che passa appena si scansa per non pestarlo. Il tuo prossimo ti cerca soltanto se e fino a quando hai qualcosa da pagare. Suonano alla porta e già sai che sono lì per chiedere, per togliere. Il padrone ti butta via a calci nel culo, e questo è giusto, va bene, perché i padroni sono così, devono essere così; ma poi vedi quelli come te ridursi a gusci opachi, farsi fretta per scordare, pensare soltanto meno male che non è toccato a me, e teniamoci alla larga perché questo ormai puzza di cadavere, e ci si potrebbe contaminare. Persone che conoscevi si uccidono, altre persone che conosci restano vive, ma fingono che non sia successo niente, fingono di non sapere che non era per niente una vocazione, un vizio assurdo, e che la colpa è stata di tutti noi.»

Gli stuoli d’invisibili ci sono tuttora. Li vedi ai bordi delle strade, sulla metropolitana, sotto i ponti, davanti ai supermercati. Cos’è rimasto di quello che fu definito “Il miracolo italiano”? Ce lo dice proprio Luciano Bianciardi, in anticipo sui tempi, voce fuori dal coro, certamente profetica: «Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico, la bilancina da bagno, l’asciugacapelli, il bidet e l’acqua calda. A tutti. Purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’uno con l’altro dalla mattina alla sera. Io mi oppongo».

Lui si è opposto e forse in ciò è da intravedere la catarsi, non nella rivoluzione politico economico sociale; si tratta di attuare qualcosa di più profondo, un cambiamento «in interiore homine».

Ma come?

«Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha.»

Sarà davvero questa la via? Oppure siamo arrivati al capolinea? Chi lo sa. Di certo, nonostante tutto, la vita è ancora agra quaggiù.   

Giusi Sciortino               

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