Una mia analisi di un testo poetico al femminile già apparsa sul blog Zona di Disagio il 23 novembre 2020, qui:
Sono un’assidua frequentatrice di biblioteche e librerie dell’usato. Beni essenziali, certo, di questi tempi poi. Amo soprattutto andare a caccia di libri di poesia, frutto amaro di anime inquiete, talvolta sconosciute ai più. Occupano un posto esiguo negli scaffali delle librerie, infrequenti perfino nelle bancarelle. Ovviamente leggo anche nuove uscite, la poesia è materia viva, non si può guardare solo al passato; devo ammettere però che, non di rado, mi capita di trovare le perle più brillanti tra cumuli di polvere, per esempio questo esiguo ma prezioso Neppure il sogno (Forum/Quinta Generazione, 1983) di Rossana Roberti, poetessa, o “poeta” che dir si voglia, marchigiana, voce femminile potente e originale che si esprime con lingua essenziale. Il volume presenta una dedica autografa di cui mi piace riportare la parte centrale: «Povero Socrate licenziato / dalla Montedison / lui non produce non fa / che chiacchierare / una chance però gliel’hanno data / questa tua benedetta Verità / gli han detto / è buona almeno / per una campagna pubblicitaria?».
E già qui. Corsi e ricorsi storici, si potrebbe dire.
Il libro propone un percorso coerente per tematiche, modalità espressive e ispirazione che si articola in tre sezioni: Casa, Parole e, infine, Tempo. Già da questa scelta capiamo che sentieri intimi, personali e allo stesso tempo universali ci stiamo accingendo a percorrere.
Quelle di Rossana Roberti sono liriche contraddistinte da sintassi minima, stile scarno, quasi privo di punteggiatura, adatto a rendere la desolazione della condizione umana. Siamo di fronte a una poesia intrisa di amarezza, che non declama ma suggerisce, delicata e sognante, eppure concreta nel suo affondare le radici nelle immagini del vissuto quotidiano, poesia attraverso la quale entrare in intimità sublime e conturbante con la nuda, dolorosa, e per questo sconvolgente verità poetica. E non è, forse, questo tentativo di denudarsi, l’aspirazione alla sublimazione, all’elevazione (seppur infima, esiziale addirittura, buona a provocare cadute sulle pantofole) l’essenza stessa della poesia?
La Casa è per analogia questa vita che abitiamo, a volte ventre di balena altre mare in tempesta. Quella di Rossana Roberti è la protezione fragile della chiocciola, delimitata da «colonne d’Ercole» da lucidare ogni tanto, con pareti che definiscono il perimetro di delicati legami familiari, il nodo irrisolto dell’amore materno, il suo bisogno inappagato, specialmente.
Non si pensi a una poetica della rinuncia, anzi. Si cerca dichiaratamente armonia nel definito e si affrontano temi sociali, in primis l’affermazione del ruolo della donna, la ribellione alla «perizia di casalinga» che ancora allora (siamo negli anni ‘80) la società chiedeva alle sue figlie. In questo senso la casa con quel «qualcosa di sacrilego / nel biancore delle tele» assume i connotati di una prigione i cui oggetti emblematici sono il ditale, l’ago, simboli negativi della condizione femminile.
E poi c’è la famiglia, la prima istituzione sociale a imprigionare i suoi componenti in ruoli fissi. Ecco un’efficace presentazione: «Padre: cementista. / Madre: casalinga. / Io: buona soltanto a soffrire».
Bisogna accettare tutto un vissuto di sofferenza in cui «formiche nere» con le loro zampette scavano nelle ferite di anima e corpo. Ma la vita non è solo questo, è anche incoscienza, le luci e le ombre del dormiveglia. Si alternano il sogno, la notte, il silenzio. «Chi veglia / è sul veliero / e nei propri occhi / dolente alla certezza / che mai sarà marinaio / e mai assenza di marinaio».
In questa casa poetica è ancora possibile sognare: la felicità esiste, racchiusa in una stanza dove ci aggiriamo per una vita intera, in cerca di quegli oggetti nascosti che scoviamo, infine, con esultanza «nei giorni di occhi grigi / e di lente movenze».
D’altronde, l’unica garanzia che il nascere ci offre è quella di avere per partner «un lanciatore di coltelli».
Dove trovare la luce? Ecco la parola salvifica, in cui rifugiarsi, che si fa casa più concreta della prigione che uccide aspirazioni e vero amore: «Io persi le parole. / Io fui persa». Parole oneste quelle di Rossana Roberti, povere «come pane e vino / su bianca tovaglia» e pregiate come «vasellame d’oro».
Con la sua scrittura, unico sogno della «quieta signora tutta sola» a cui talora la parola trabocca «come a una puerpera la monta del latte», la poetessa trasmette il suo rispetto per l’arte poetica, con umiltà da vera artista.
La parola costruisce una tela di significati, una tela mai compiuta perché non è cosa umana giungere a perfezione. Ma non importa: «è grazia anche lo spasimo / d’una coda mozzata di lucertola». Potere della parola, approdo del pensiero e scaturigine dell’esperienza sensibile, legame tra mondo materiale e spirituale, dunque.
Non mancano momenti di divertimento in questi versi di «frantumato biscotto», per esempio nel fraseggio infantile «bi e ba», «am am bambino mangia-mi». Queste poesie sono belle e delicate come «Le rose dell’ovvietà» che l’ordinario ci porge.
Altro elemento che s’impone è l’influenza di Emily Dickinson (citata in esergo, nominata e richiamata nel libro), poetessa sicuramente amata di cui si ripropone l’immaginario d’insetti benevoli, prati fioriti e sogni. Proprio la Emily Dickinson che decise di passare la vita in reclusione volontaria, con la sua ardente aspirazione all’eternità. Due visioni diverse, comunque, dato che la consolatoria e sontuosa eternità dickinsoniana qui si fa falsa e dimessa come «bevuta da un bicchiere».
In questo viaggio dell’esistenza senza meta, scandito dal monotono scorrere delle stagioni, dove non è concesso andare e venire a piacimento, soltanto attendere allo scalino «stare prima della vita / per stare prima della morte», il tempo crudele senza miraggi è l’unica certezza. Giorno e notte, dalla primavera alla «coda grigia dell’inverno» fino al «disco rovente della morte».
Siamo umani, finiti, uniti dal comune destino di anguilla «che tenta di risalire la corrente / che obbedisce e muore / sotto alte torri d’argento d’acqua» immersa «dentro la bufera del tempo / e non sapendo perché». Tutto finisce. Neppure il sogno resta. La parola, forse.
Giusi Sciortino