Non avevo mai letto un libro di Pier Vittorio Tondelli, eppure è uno di quei nomi importanti della letteratura italiana degli anni Ottanta. M’immergo nel primo dei tre “movimenti” del suo romanzo forse più conosciuto, ovvero Camere separate (Milano, Bompiani, 1989), e già nell’incipit vedo delinearsi molti degli elementi che, presagisco, potrebbero essere i temi portanti del libro: trentadue anni sono pochi, eppure sufficienti per avvertire la fine della giovinezza; tale consapevolezza preannuncia un’altra serie di perdite, del sé e dell’altro, della persona amata in questo caso, cioè Thomas.
Nella terza persona usata in maniera straniante, dato che il punto di vista coincide con quello di Leo (il protagonista), si avverte la volontà di stabilire una distanza funzionale all’efficacia della narrazione. Tramite momenti episodici che coincidono con analessi sovrapposte a incastro, – incursioni nel tempo passato del ricordo e nel presente in cui si svolge l’azione, o meglio «il presente stato di questo sogno» –, si costruisce quasi un monologo interiore dalle connotazioni autobiografiche.
Il tema della solitudine della condizione omosessuale, il rimpianto per quell’amore che mai potrà dirsi totalizzante – da qui il senso delle camere separate –, è anche un modo per parlare di diversità, di chi non si sente accolto dalla società per via della norma disattesa. La sensazione di sradicamento è rappresentata dal continuo vagare dei protagonisti da una città all’altra d’Europa, come esuli volontari. Molto è stato fatto, vero, tuttavia il marcio di una società che tende a normare, ghettizzare, vietare, permane, peggiora addirittura, soprattutto quando nell’ipocrita pretesa di tutelare qualcuno non fa altro che separare, escludere qualcun altro. Così, piuttosto che creare vera inclusione, si tende a classificare gli uomini, cittadini apolidi di un mondo senza centro morale, dove tutto, all’occorrenza, vale; sempre a dividere in buoni e cattivi, ricchi e poveri, neri e bianchi, categorie contrapposte. Divide et impera, così recita il motto che interpreta la migliore attitudine al comando. Centrale in queste pagine la lacerazione dell’identità non compiuta di chi «Non era più Nessuno e Nulla. Era una individualità che soffriva nel divenire». C’è la vicenda personale, i ricordi infantili, la provincia. Non si può fare a meno di pensare che questo scritto sia anche un testamento spirituale, dato che l’autore morirà solo due anni dopo l’uscita del libro. E poi ci sono Parigi, Montmartre, Le Marais popolati da ragazzi alla moda, borghesi, feste e marijuana, e ancora i film di Fassbinder, la musica e tutti i riferimenti alla cultura giovanile anni Ottanta, una generazione falcidiata dall’AIDS, da droghe e abusi. Un libro generazionale, quindi.
Per mio gusto personale, ai momenti d’intimità tra Leo e Thomas, ordinari se vogliamo, preferisco quelli più rarefatti o caratteristici, in cui si mischiano sacro e profano, delicato ed esplicito, le due anime dello scrittore. Segnalo, per esempio, i momenti dedicati alla processione con la Madonna, o ancora l’accenno a La Saeta di Antonio Machado (qui la poesia con traduzione in italiano) e l’immagine del Cristo morto a cui si sovrappone quella di Thomas, o anche quella di Leo. A ogni modo, c’è grande equilibrio nella costruzione di quest’opera che, pur senza avere la pretesa di farsi capolavoro o stravolgere la lingua, ha il merito di ricreare in maniera credibile l’atmosfera di un’epoca, oltre a raccogliere una testimonianza di vita. Lo fa con sapienza, visto che tutto si tiene insieme perfettamente: la vita da intellettuale bohémien, le visite ai genitori, i riferimenti alle suggestioni della religiosità popolare, il desiderio che vissuto a metà oppure come eccesso configura una colpa che conduce alla sofferenza e all’idealizzazione del sentimento amoroso. Quest’ultimo punto è cruciale: rinunciando a «una realtà sbrigativa e furtiva di scambio sessuale, l’atto d’amore diventa ancora una volta mitico». Ed è proprio l’amore ideale che Leo ricerca; la sua incapacità di riconoscerlo in colui che avrebbe potuto incarnarlo gli impedisce di elaborare il lutto incastrandolo in una coazione a ripetere i suoi errori, sempre gli stessi, coerentemente con quel destino di solitudine che tocca a chi è votato (oppure costretto) a nascondersi, recitare una parte. La scrittura rimane l’unica cosa a cui Leo lasci dirigere i suoi movimenti interiori, ma anche un’attività che amplia la distanza fra sé e gli altri. Anche in questo caso, la diversità viene vissuta come una specie di vergogna la cui rivelazione fa sentire a disagio. Il diverso appare a se stesso, prima ancora che agli altri, uno strano animale in via d’estinzione.
Una vita segnata da un’infelicità inguaribile quella di Leo, che niente può consolare: «Allora, forse, tutta la sua vita, il suo essere separato, non è altro che una elaborata messa in scena della propria inestinguibile volontà di svanimento; la spettacolarizzazione pubblica di un complesso di colpa, di un’angoscia che lui ha sentito forse fin dal primo giorno in cui ha aperto gli occhi al mondo, e cioè che non sarebbe mai stato felice. E questo senso di colpa, per essere nato, per aver occupato un posto che non voleva, per l’infelicità di sua madre, per la rozzezza del suo paese si è dislocata in un mondo separato, quello della letteratura, permettendogli di sopravvivere, anche di gioire, ma sempre con la consapevolezza che mai la pienezza della vita, come comunemente la intendono gli altri, sarebbe stata sua. Il senso di una sottrazione primaria, probabilmente è questo che l’ha spinto al punto in cui è ora».
Nel momento simbolico dell’incontro in aereo tra Leo e il padre che accompagna la salma del figlio nell’ultimo viaggio terreno, c’è la premonizione della fine imminente. Poi, finalmente, la speranza di una felicità momentanea, se non altro l’accettazione della vita che scorre, nelle parole di una canzone di Morrissey:
«I’m so glad to grow older
To move away from those younger years
I’m in love for the first time».
Giusi Sciortino
Da avido lettore quale sono, è la prima volta che sento nominare questo autore. Grazie per la segnalazione! ^_^
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Prego! Un libro che ha avuto la sua importanza, come il suo autore. Mi sento di consigliarlo
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Vado brevemente OT: sempre sul tema dell’omosessualità e del sentirsi diversi (il protagonista del romanzo in questo caso è un medico ebreo negli anni del fascismo, nda), ho letto di recente il gradevole “Gli occhiali d’oro” di Giorgio Bassani. Questo lo consiglio volentieri. Al momento l’unico da me letto di Bassani, ad onor del vero. ^_^
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Metto in lista, ottimo Bassani. grazie 😉
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Dello stesso autore è molto bello anche Rimini: l’hai letto?
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Non ancora
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L’ho letto molti anni fa. Cogli dettagli importanti del libro. Ammetto che però Tondelli non mi entusiasma. Ho la sensazione di una ricerca quasi ossessiva del dolore, narcisistica a tratti. È come Orfeo che non resiste a voltarsi indietro vero Euridice, condannando lei per sempre agli inferi e se stesso al dolore della poesia.
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Il dolore mi sembra reale, l’ispirazione sincera: alcune parti sono davvero ispirate. Ciò detto, non credo il libro voglia ergersi a capolavoro, lo dico pure nell’articolo, però riconosco la sua importanza nel descrivere un certo ambiente e un particolare periodo storico. In molti si sono riconosciuti in questo romanzo.
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Non dico non lo sia, ma sembra una sorta di rifugio. So che è un romanzo generazionale, sembra contestualmente seppellire il tentativo della generazione precedente di andare oltre il dolore come condizione permanente. Quel riconoscersi c’è stato, perché è disillusione profonda e definitiva. Ed è questo che mi lascia perplesso, è come se chiudesse tutte le porte.
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Capisco le perplessità. La disillusione forse, condizione da cui scaturisce l’ispirazione, c’è; poi c’è la testimonianza personale, un libro testamento. Che sia un ritratto più o meno disperato, più o meno veritiero non costituisce un elemento che possa influenzare il mio giudizio. L’opera crea una sua discorsività, viene accolto e diventa importante contiene elementi d’interesse
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