Un mio articolo su Un Viaggio in Italia di Guido Ceronetti pubblicato la prima volta su Zona di Disagio, il 2 marzo 2021, qui:
Guido Ceronetti nel suo Un Viaggio in Italia (Einaudi, 1983) si chiede: «e se fossi l’ultimo viaggiatore letterario in Italia?». Di sicuro, di quello spessore non se ne trovano molti. Prima di lui impossibile non guardare al Viaggio in Italia di Guido Piovene, dopo mi viene in mente L’infinito viaggiare di Claudio Magris, dove i racconti però spaziano anche oltreconfine. C’è nelle pagine di questo viaggio ceronettiano una franchezza, un’irriverenza e un’originalità di pensiero di cui oggi si sente davvero il bisogno. Se negli scritti poetici e filosofici ritroviamo un Ceronetti più pensoso, nichilista forse, in questo viaggio ci avviciniamo al satirico. Poeta, traduttore, scrittore e filosofo alieno al suo tempo, sempre proiettato altrove, tra epoche future e passate, curioso di civiltà e lingue antiche, Ceronetti intraprende questo viaggio in Italia in lungo e in largo, da Trieste a Palermo, alla ricerca di borghi, paesaggi, chiese, santuari, opere d’arte ma soprattutto della più varia umanità: bruti, vecchi, ragazzini, pazzi («Il pazzo ha rotto la tenebra dell’esistenza normale», scrive) sono per lui materia viva d’osservazione. Presta particolare attenzione agli alienati, ai diversi, visita l’istituto psichiatrico di Fregionaia a Lucca: l’autenticità che alberga nella follia risalta rispetto all’ottusità della sociologa che vorrebbe curare, normalizzare i pazienti privandoli della loro verità, perlomeno l’unica loro consentita. La vera demenza per Ceronetti è da rintracciare nella televisione con le sue inconsistenti ombre parlanti che si diffondono come un’epidemia.
All’occhio dell’osservatore non sfugge niente, macerie, opere d’arte, cibi al suo palato ributtanti, tutto è indagato con la lente della sua pungente ironia. Il libro è fitto di citazioni, dal latino o dall’ebraico, di riferimenti alla mitologia greca e alle civiltà mesopotamiche e orientali, tutti i luoghi in cui la cultura di Ceronetti spazia e che costruiscono il suo ricchissimo e mobile immaginario. Ci sono nomi di cimiteri italiani e degli illustri personaggi ospitati, di poeti e scrittori da lui più o meno amati, concetti metafisici delle più varie culture e religioni, e poi città, chiese e chi più ne ha più ne metta. L’atipico viaggiatore trova migliore la compagnia delle sue letture rispetto a quella di un ordinario petulante compagno. Ma vediamo un po’ cosa legge, non un elenco esaustivo: c’è Mallarmé; Céline; i saggi su Ariosto di Antonio Baldini; L’Éducation sentimentale di Flaubert; Les Indes noires di Jules Verne; la Vita nuova di Dante; Le stelle fredde di Piovene secondo il quale il filosofo è sempre pietoso, fatto smentito dai filosofi non veri, dice Ceronetti. Parecchi gli scrittori e i poeti non frequentati, un esempio fra tutti Quasimodo definito «arpa scordata mediterranea». De gustibus. L’Italia è come un libro prezioso da scoprire tra le brutture che la deturpano e, percorrendone le stradine, Ceronetti, pur non essendo folgorato da alcun miracolo cattolico, riesce a toccare con mano un po’ di quell’agognata bellezza. Questa la motivazione profonda del suo viaggio. Sono le chiese con la loro magnificenza a dare l’illusione di una religione consolatoria, è immorale non soffrire per la perdita di tale patrimonio. Purtroppo, la verità è che la religione in realtà canta la morte, e la bellezza che secondo l’idiota dostoevskiano avrebbe salvato il mondo, pur essendo arrivata, non ha salvato un bel niente. I nuovi costumi (siamo negli anni Ottanta, ma molte delle considerazioni del libro sono ancora attuali) sono senza morale, una società celibataria dedita alla fede ipnotica del calcio, nuovo patriottismo dalla multiforme bandiera, difende la già sgretolata famiglia. La chiesa che si fregia dell’abusato termine Amore adombrato piuttosto dalla Vanitas, avendo invece in simpatia vacuità, denaro e apparenza, ha perso la sua funzione spirituale e per recuperarla dovrebbe farsi ascetica.
Ceronetti irride pure le vane parole del predicatore evangelico brasiliano, parole che usate bene hanno invece il potere di stupire e toccare l’animo, per esempio quello dell’uomo marocchino a cui Ceronetti legge la sura che l’esule arabo non conosce, oppure ha dimenticato. Vale un viaggio anche la visita al mago in Sicilia e al prete esorcista a Torino (la simpatia dell’autore va a quest’ultimo). In ogni caso, non si riesce a eliminare quel brutto rumore di fondo, la voce catodica unica che rigurgita sogni illusori. E intanto la divinità rimane un mistero, gli dei spariscono mentre il male metafisico incombe. Emblematica è l’umanità di automi rappresentata dalla mirabile arte di Sironi. Sarà che anche la bellezza insegna la fatalità, l’inesorabile, quella Necessità davanti alla quale sfilano i vizi dell’uomo, in primis egoismo e avidità, e a cui non c’è possibilità di redenzione, se non a costo di perdere la ragione. «Mais la vision de la justice est le plaisir de Dieu seul», insegna Rimbaud.
Ci sono luoghi che hanno ceduto il posto al disumano, per sua natura irrimediabilmente brutto, privo com’è d’impronta spirituale: «dietro al denaro c’è un dio ignoto, che lo sperpera per i suoi fini». Non si può che inorridire di fronte al mostro nucleare di Caorso, alla bruttezza dell’Italsider a Genova, al «gotico diabolico» siderurgico dell’Ansaldo, alle inurbazioni selvagge. Non a caso l’automobile è uno dei simboli principali della decadenza, complice dello sradicamento dell’individuo, della famiglia. Tutto ciò produce soprattutto l’inquinamento che deturpa le coste. Come due entità mitologiche «Boom&Crisi» (due gemelli), procedendo dall’industria e generando la società dei consumi, sono i principali motivi di degradazione della tradizione, animo stesso dei popoli. L’unico ristoro è dato dalla contemplazione di nobili architetture e opere d’arte, per esempio quelle del già citato Sironi a Brera, Il misantropo di Brueghel e San Gerolamo nello studio nel museo di Capodimonte, Beatrice Cenci di Guido Reni, il Laocoonte, e via dicendo. Agli orridi simboli del moderno meglio contrapporre le visite a osterie malfrequentate, ospedali, ex prigioni, ospizi e borghi abbandonati. Visitando il Cottolengo dove opera gente di cuore nobile, per atto magnanimo che non ha come scopo il vile denaro, proprio come facevano i soccorritori del lazzaretto manzoniano, Ceronetti individua quel raro spiraglio di luce salvifica, ovvero la pietà. È in tale pratica quotidiana da intravedere il sublime, non nella dottrina religiosa di cui Ceronetti spesso schernisce i rappresentanti, frati rincretiniti e monachine smilze. Alla fine, è la verità che conta: è «poca cosa l’Italia dei musei, perduto il fiotto umano dei casini». Mancanza di verità (di allora e del nostro tempo) rivelata dai tir in viaggio per l’Europa, dalla brutta mostra che fa di sé il turismo di massa, dal prevalere del denaro, simbolo di illusione e menzogna, dal bisogno di riempire la vita di futili piaceri; verità che trapela, invece, negli aspetti più crudi ma veri, come le facce delle puttane e degli sgherri violenti che popolano caffè e bistrots sordidi.
Un’altra chiave di lettura a cui questo libro si presta è quella storico antropologica, per esempio chi ricorda ancora Isa Pola, Lina Pagliughi o Marisa Maresca? Un viaggio in Italia in questo senso è un importante documento da leggere, studiare, preservare in quanto fotografia di un preciso momento, un tempo passato, in cui, per esempio, i veri stranieri erano i meridionali. Ceronetti li osserva, nei loro dialetti duri gli appaiono distanti come i maghrebini che guarda allontanarsi sulle navi, uomini simili a materiali inerti alla deriva, frantumi d’Oriente che l’orrendo Occidente ha corrotto, abolendo la vita nel vano tentativo di pulir via lo sporco. Non si fa illusioni Ceronetti, sa che per ritrovare la vera essenza del suo Paese è necessario fare un viaggio nell’invisibile, nella bellezza nascosta, impercettibile come un gracidio di rana. Nella bruttezza non c’è comprensione possibile, né della storia né del mondo, e nemmeno nell’ignoranza. «Non c’è vita vera che nella conoscenza», fosse la visita al cimitero monumentale di Staglieno o l’incontro con le vecchiette che danno da mangiare ai gatti. C’è una retorica che Ceronetti non accetta, per esempio quella insita nella presunta liberazione dei costumi che nasconde solo una nuova acclamata bassezza morale: «Un’umanità senza il senso morale è morta».
Siamo negli anni Ottanta, nel cuore del miracolo italiano iniziato nei Sessanta; simboli del progresso Torino e la Fiat con gli stabilimenti del Lingotto al tempo della narrazione in via di dismissione. Ceronetti legge a mo’ di monito: «Il Dio lavoro non è un Dio luminoso», e poi osserva: «Il mondo del lavoro è così inorridito dal tragico, legge del mondo, che si potrebbe spostare facilmente in Coal-cities un grandissimo numero di operai e tecnici in cambio della sicurezza, dell’assenza di crisi, di un contratto senza fine. Neanche pensionati uscirebbero più». Posizione critica ma lungimirante. Innegabilmente Ceronetti ha molto del visionario, una sorta di sciamano coltissimo, un profeta forse. Chissà: «tutta la religione monoteista si fonda unicamente sui profeti, priva com’è di ogni presupposto naturalistico e filosofico».
Poche speranze di rintracciare vera spiritualità in un Paese che, pure, è profondamente cristiano. La cartina geografica delle molte cittadine senz’anima popolate di abitanti inconsapevoli appare uno sterminato nulla cosparso di stupidaggini. Una promessa di paradiso è possibile scorgerla proprio nei cimeli stessi delle meravigliose architetture, desolate testimonianze di splendore, nel fascino delle rovine oppure in ciò che rimane delle tradizioni popolari, per esempio le processioni per Pasqua a Sulmona con gli appariscenti abiti delle zingare. D’altronde, «Solo quel che è povero è cristiano», l’unico miracolo possibile è inesistente e l’unico Dio «un Numinoso degli stracci», sacro straccione o Lumpen heilige.
Una delle massime espressioni di decadenza è l’impossibilità di comunicare, una pochezza che si riverbera nelle cabine telefoniche dietro i cui vetri la gente si affanna(va) convulsa, tutti Ugolini attaccati alla cornetta, cannibalismo telefonico oggi esponenzialmente amplificato, confluito nella dipendenza da smartphone. La molestia dei rumori subiti è il riflesso di rapporti umani superficiali; a questo punto meglio la provvisorietà delle fugaci conoscenze. Le città regno dei «rumorocrati», la pessima musica, il cattivo gusto imperante rendono «l’Italia brutta, guasta dentro, una verminaia». La folla poi, nella sua volontà spasmodica di ricevere un contatto con i cimeli del genio, «non è amore della scienza (…) è avidità di ricevere un segno (…) I legati irripetibili del passato sempre più avranno una funzione magica». È così. Un’idea non troppo confortante del suo pensiero circa la modernità e i suoi ultimi ritrovati Ceronetti ce la lascia in Per non dimenticare la memoria. Eppure, nonostante tutto, questo errare intrapreso in contrapposizione alla stanchezza che potrebbe cogliere un uomo non più giovane, è una corrente a cui non ci si può opporre, un moto vitale coinvolgente. Così il viaggiatore avanza, osservando, non distogliendo lo sguardo dalla pena umana anche se gliene è precluso l’intimo segreto che va oltre la vita stessa. L’occhio attento da antropologo si esercita soprattutto sulla gente comune appartenente alle classi sociali più umili. Ceronetti non nomina solo chiese e opere d’arte ma anche scritte qualsiasi, volgari sgrammaticate goliardiche, si sofferma su epigrafi illustri ma anche su lapidi di sconosciuti; qualsiasi cosa su cui si sia impresso il passaggio dell’uomo lo interessa. Incontra strani personaggi: una donna che bestemmia, uno zingaro che vende rame, un vecchio in sedia a rotelle, bimbe che giocano a palla, avventori di bettole che si tirano per i capelli. È anche un viaggio alla ricerca dell’umanità questo, non a caso a un certo punto appare una curiosa via, la più bella: Via umana. Nel suo incedere il viandante ha la possibilità di esercitare varie arti, per esempio quella di «non annoiarsi in una camera d’albergo», oppure il mangiar bene, essenzialmente vegetariano. Ho preso nota dei menu: Ceronetti (attento alla causa degli animali) va ghiotto di fichi, zucca, patate, pane, non disdegna castagnaccio, polenta di ceci (farinata), fiocchi di riso al pesto, ricotta, crema di marroni, pizza di cipolle, broccoletti. Lo disgusta invece l’industria dolciaria. La cattiva alimentazione produce tanti danni, fra cui uno squilibrio dei bassi istinti che rende l’uomo volgare, di una violenza che si riflette nel linguaggio. Del resto, la punizione divina non iniziò forse da un errore dietetico?
Al termine di questa lettura si rimane con la sensazione di una magnifica scorpacciata letteraria e con una domanda: qual è la vera Italia? Ce n’è una offesa dalla bruttezza e una salvata, ciò che resiste di quella ideale, cioè. L’Unità non può dirsi veramente compiuta essendo l’Italia-Nazione un insieme di genti profondamente difformi che vivono in una pace illusoria, piena di frodi. Inutili soprattutto le guerre con il loro portato di feroci brutture, per esempio la strage di San Michele, sul Carso, dove nel giugno del 1916, nell’attacco austroungarico con gas asfissianti, i soldati italiani morirono nel sonno. Stride con tale sorte la lapide che glorifica i militi ignoti. Triste religione la rievocazione del valore militare. Nel cimelio imputridito di una maschera antigas Ceronetti intravede il volto dell’umanità futura: la nostra.
Giusi Sciortino
In effetti non c’è più il letterato che racconta il suo viaggio, forse Rumiz…
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E dire che ogni romanzo è, in fondo, un viaggio
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E già.
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E’ un bell’articolo, complimenti. A me però i profeti e gli sciamani e quelli che guardano all’indietro non piacciono. E le cose più belle che ha dipinto Sironi sono i paesaggi urbani moderni e le fabbriche. Forse l’idea di bello va un po’ aggiornata rispetto alle famose chiese. Detto senza polemica
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Grazie. Io ho sempre avuto un debole per i profeti. Ceronetti poi ha un occhio originalissimo e del tutto non convenzionale.
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