Articolo già pubblicato il 12 gennaio 2021 su Zona di disagio, qui:
Non ricordo un altro periodo della mia esistenza così contraddistinto dalla centralità nell’immaginario collettivo del pensiero della malattia e della morte. È un florilegio di consigli igienici e un ripetersi di termini riconducibili al campo semantico della medicina; Pandemia spicca fra tutti. Ecco che, caldamente oppure obtorto collo, si correggono comportamenti, si stigmatizzano abitudini e si fa caso a dettagli che prima sarebbero apparsi irrilevanti, che ne so, la posata poggiata incautamente sulla superficie non perfettamente linda, il lembo di pelle nuda che sfiora materiale organico, inorganico o semplicemente altro da sé e in quanto tale potenzialmente infetto. Così è, ne prendo atto. Le discussioni private e pubbliche, gli articoli di giornale e anche le analisi e i riferimenti storico-culturali in merito si sprecano. Di sicuro, la malattia è da sempre un buon argomento letterario, e non potrebbe essere altrimenti dato che la fugacità dell’essere umano – se non altro quella fisica – è connaturata alla vita, primigenia materia da cui qualunque opera artistica trae ispirazione. Vivissime le suggestioni apocalittiche offerte da libri come Cecità di Saramago, La peste di Camus o Dissipatio H. G. di Morselli, letture consigliate anche in assenza di allerte sanitarie. Qualcuno ha fatto cenno allo storico Tucidide, alle sue Storie, ovvero quella Guerra del Peloponneso in cui il conflitto e la peste assumono parimenti valenza di sciagura sociale, oppure a I promessi sposi, il grande romanzo romantico italiano in cui la narrazione intorno alla miseria della corruttibilità della carne a opera della pestilenza è illuminata dalla pietà, sublime manifestazione terragna della divina Provvidenza, basti pensare al memorabile ritratto della piccola Cecilia in braccio alla madre. Proietta in una dimensione più privata e personale della malattia – affezione del corpo ma anche della psiche –, nel pieno solco della tradizione novecentesca, La montagna incantata, l’enorme volume che mi occhieggia dall’ultimo ripiano della mia libreria. Ne riservo la rilettura ad altro momento. Ancora, tra vecchi cimeli libreschi giace Fuoco nelle viscere, smilzo romanzo anni ‘80 di Almodovar, il regista, che racconta di un virus creato in laboratorio da uno scienziato cinese, proprio così. L’atmosfera è quella grottesca tipica dei film almodovariani, il vero tema la malattia terminale di una società «disumana e fredda, in cui i sentimenti non valgono niente e conta solo il denaro». Sfoglio Il morbo di Haggard di Patrick McGrath, ricostruzione di una memoria amorosa dal punto di vista di un medico che ricorda certi medical drama americani, e, infine, indugio su Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino, libro amato che rileggo per intero, con grande diletto. E qui mi soffermo e dico: ritorniamo a leggere Gesualdo Bufalino! Va bene anche senza pandemia, anzi, meglio.
Nelle pagine di questo romanzo ricchissimo nella preziosità del linguaggio e nella cura maniacale con cui si elabora uno stile multiforme e personale, il protagonista (che coincide con la voce narrante) vive l’amore impossibile che sboccia tra le mura asettiche del sanatorio La Rocca, nei pressi di Palermo. È un destino già segnato in partenza quello dei novelli Orfeo ed Euridice bufaliniani che osano sfidare un nemico invincibile: la morte. Il trionfo della morte, magnifico affresco scampato ai bombardamenti del 1944 da palazzo Sclafani (dove il tempo della narrazione ancora lo colloca) e ora conservato a palazzo Abbatellis, rappresenta iconicamente la vicenda che accomuna gli ospiti del sanatorio. Nel dipinto uno scheletro a cavallo di uno spettrale destriero scocca frecce che trafiggono gli astanti, i potenti soprattutto, ritratti in preda agli spasimi dell’agonia; in nessun caso le loro suppliche ottengono ascolto. Come nel romanzo. Soltanto il protagonista-narratore-untore sopravviverà catarticamente alla funebre visione e si riapproprierà della propria vita dando origine alla sua “diceria”.
La parola/diceria acquisisce così la valenza magica propria del contagio, consistente nel potere negativo di apportare la morte in un caso, nella possibilità di rappresentarlo nell’altro; l’untore-protagonista non può che coincidere con il narratore. La malattia in sé non appare gran cosa, nient’altro che un bacillo misteriosamente inoculato, fortuitamente, da «sputo di vecchio o bacio di puttana o spora di vento».
A pensarci bene, è «strano innamorarsi di un corpo che mangia, secerne, si svuota: denso di villi, papille» e probabilmente non sarebbe sbagliato dire che pure la vita si possa considerare come una sorta di malattia letale. Ce lo ricorda Marta che pure nel nome richiama quel tarlo: «io so che ogni mio fiato è un veleno, che tutto quanto tocco o mi tocca s’infetta». Ma è proprio in questo amore – «per traslato, un no alla morte», per stessa ammissione del protagonista –, la vera ribellione all’ineluttabilità della sorte dei mortali, rappresentata da un meschino Ecce Homo che il Venerdì Santo recita per pochi spiccioli prima di attaccarsi di nuovo alla bottiglia. E nonostante tutto, è questa breve fragile vita l’unica cosa che conta realmente: «nei miliardi di secoli passati e futuri io non so trovare evento più importante della mia morte», confessa una Marta in fin di vita. Un senso del tragico fatto di dissonanze quello di Bufalino, ipertrofico e ironico assieme, pienamente barocco. Non sono alla ricerca di illusorie consolazioni i suoi personaggi («Mi ripugna codesto Dio da indossare come una maglia pesante sopra le nostre pleure di cartavelina», dice il protagonista), semmai fungono da testimoni «d’una retorica e d’una pietà». E noi lettori siamo gli spettatori del tradimento del tacito patto fra moribondi (quello di rinunciare alla guarigione), i destinatari della diceria del sopravvissuto, untore narratore e dispensatore di finzione per sua natura. Infatti, se sopravvivere è tradire, raccontare è mentire. Già Marta si fa emblema della finzione scenica nel capitolo in cui recita durante una rappresentazione teatrale nel sanatorio.
Non esiste invece spazio per la finzione in Al di là del mondo, libro di poesie di uno sconosciuto, almeno per me, Fernando Moriconi trovato in una libreria dell’usato. Fernando Moriconi prende «in mano / l’ultimo mestiere: / scrivere poesie» dopo che un incidente lo costringe a letto, attaccato a un respiratore. Poesie scritte – dettate sarebbe corretto dire – tra il reparto di rianimazione dell’ospedale di Pisa e la casa di Viareggio. L’interesse principale di questa lettura consiste per me proprio nella verità dei testi. Malattia e poesia come ultimo conforto, dunque, poesia come testimonianza diretta che sboccia come urgenza vitale proprio nel fatale momento di passaggio. Da sempre si soffre, umanamente ed eroicamente si vive o si decide di porre fine a gioie e tormenti, scelte legittime entrambe. L’autore decide di affrontare la vita, almeno il poco che gli è concesso, pur sapendo che «La rinuncia mi possiede/ ombra del mio destino». Non c’è autocompiacimento nella descrizione di una condizione estrema, nemmeno disperazione, solo lucida sincerità. La dedica illustra bene gli scopi dello scrivere e vivere dell’autore, attività sovrapponibili: «A tutti coloro che come me / inseguono la luce». Nel suo percorso Fernando Moriconi ottiene delle conquiste, lui che non sapeva nemmeno «quanto potesse pesare il mio cuore», ovvero la fede e la speranza nonostante la fine imminente. Ce lo dice lui stesso nella sua nota introduttiva «Questi poveri versi nascono dalla sventura e soprattutto dalla fede». Questa poesia non trova la sua ragione d’essere nella ricerca dell’assoluto o nella perfezione formale, ma piuttosto nel racconto di una solitudine accettata come un sole alla fine del calvario, di un vissuto eccezionale che non si consuma nel ricordo. Le immagini più frequenti sono gli uccelli, simbolo di una libertà compiuta solo nell’immaginazione, e gli alberi, querce e ontani stabili, ben piantati sulle montagne dormienti. Si cerca il riposo, la pace, ma si canta anche la vita e l’amore, pure quello più fisico e sensuale. Quanta tenerezza in questi versi leggeri intrisi di «nera, perduta speranza», bagnati di pioggia lacrime e mare. Un testamento. Fa capolino la figura della madre che simile a pietà michelangiolesca custodisce l’animo del figlio. E poi quella presenza divina, un Tu colloquiale e fiducioso a cui l’io poetico anela fervidamente. Prima la domanda «Eloì, Eloì, lemà sabactani?» e, finalmente, la rivelazione: «Tutto è odore di miracolo!». Un dio da trovare in sé, nella natura, nella meditazione «Tutto ha una fine. / La solitudine / nel buio della notte / mi appartiene», nel destino comune di essere umano «Ognuno è solo nell’ora disperata».
Fondamentale è l’accettazione di una condizione di reclusione, del dolore che pure ha «un significato / che a noi sfugge». Qui i rimpianti sono davvero inutili.
Il poeta però non vuol essere compatito, anzi, ci avverte di non drammatizzare il suo caso. Meglio dimenticare: «Piccoli salici m’avvertono: / dimentica! / Piccole viole di campo mi dicono: / dimentica! / Piccole rose di cancello mi dicono: / dimentica! / Piccoli rami di giunco schioccano a frusta e mi dicono: / dimentica!».
È eminentemente tragico il destino di creatura sperduta nel mondo: «Musicale il concerto delle campane / sospeso nell’aria. / Cerco ancora motivo che superi, / non chiedetemi che cosa. / L’invisibile non può rispondere / dove il sole batte / lontano da tutti, / ma solo la mia triste illusione.»
Il poeta tende la mano nel cui cavo porge i suoi doni più preziosi. Sono la sofferenza, l’abbandono e il distacco dalle cose di questo mondo, lo smarrimento, ma anche il conforto, la preghiera, l’accettazione. Poiché l’anima (per chi ce l’ha) sa andare oltre, trovare forze inaspettate, le sue valvole di sfogo. E ancora «È massima saggezza andare avanti, dimenticare il passato». Però «Spera! Spera! Al tramonto della vita potrai dire: / ho messo un fiore è nato un frutto d’amore». Allora «ogni delusione brucerà / in una risata di gioia».
Giusi Sciortino
“Diceria dell’untore” è un libro sorprendente, dove ogni parola è soppesata e calibrata con la sapienza/pazienza del certosino, poiché Bufalino ne aveva straordinario rispetto. La narrazione dolorosa, ed al contempo poetica e ironica, di una storia d’amore in cui don Rodrigo appare nel morbo, suggerisce esattamente quello che tu richiami del rapporto tra Orfeo ed Euridice E mi sovveniva proprio quanto di quella vicenda scrive lo stesso Bufalino in altro testo, credo, se la memoria non m’inganna, “L’uomo invaso” (altra chicca di meravigliosa eleganza) . Che il poeta, ha bisogno dell’intensità della sofferenza per elevare i suoi versi ad altezze vertiginose, dunque, Orfeo si voltò di proposito, a lanciare lo sguardo su Euridice, non resistendo alla tentazione di poter piangere in eterno il suo dolore in strofa per la perdita dell’amata.
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Eminentemente elegante la scrittura di Bufalino. Spero non se ne perda la tradizione, tutti presi dalla smania della semplificazione, dalla volgarità gratuita spacciata per innovazione. Cos’altro è la bellezza di un testo se non l’armonia di forma e contenuto? Lavoro di cesello continuo. Il poeta coltiva la parola e ne fa dono agli uomini. Non ho letto L’uomo invaso. Rimedierò. Intanto grazie per il commento ricco di spunti 😉
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[…] parlato di malattia e luoghi a essa connessi qui, tirando in ballo, tra gli altri, Gesualdo Bufalino con la sua Diceria dell’untore. Oggi propongo […]
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Condivido pienamente il suo pensiero sul declino della nostra letteratura. Per questo dopo una analisi attenta delle opere scritte DAL Secondo Ottocento ad oggi, una Letteratura e Società in sei volume, mi sono accinto a scrivere “BRICIOLE DI UN SOGNO” ora edito dalla BastogiLibri di Roma che sta riscuotendo notevole successo e che l’editore sta pubblicizzando come un romanzo diverso e nuovo. Bufalino è un Grande Siciliano che non tutti riescono a capire o non vogliono capire per ridicole invidiuzze di primato.
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La grandezza di Bufalino è lì, nei suoi libri, basterebbe leggerli senza farsi corrompere il gusto per il bello dalla volgarità e dalla mediocrità imperante. L’opera dura, attraversa il tempo, le piccole invidie si perdono senza lasciare traccia. Grazie per il suggerimento e per la lettura del mio pezzo. Gran libro questa meravigliosa Diceria…
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