Vodka siberiana, l’ultimo romanzo di Veronica Tomassini

Di Veronica Tomassini ho letto l’esordio, Sangue di cane, libro dallo stile molto personale condotto con un’attenzione estrema verso la ricerca formale. Niente narrativa d’intrattenimento, per intenderci, nessun genere in cui lasciarsi inglobare. Mi approccio a questo nuovo romanzo e ritrovo gli ultimi, le dipendenze, l’uomo con le sue intemperanze, gli abomini, la fragilità, attimi di bellezza e spiragli di luce; e poi i demoni abbandono e rifiuto, l’amore che non basta mai, seppur costantemente invocato, tutti elementi che trapelano da storie di marginalità appena abbozzate, inserite in un quadro sofferto e veritiero che si occupa di tematiche talora trattate per scioccare, senza vera empatia o comprensione. Il mondo non è una cartolina e attingere da un bacino di umanità dimenticata, derelitta fa bene alla letteratura. Il compito di migliorare la società, ammesso che qualcuno possa arrogarselo, con esempi di fulgida perfezione non spetta certo agli artisti, nemmeno quello di informare, istruire o educare. C’è invece bisogno di personaggi scuri e scorretti per comprendere e immaginare la complessità del reale, l’alterità. Un romanzo è un’opera artistica che crea e definisce il suo proprio codice morale, un universo più o meno plausibile ma peculiare. Nessuno slogan qui, niente ultime tendenze sul dibattito culturale né proclami confortanti, ma nemmeno maledettismo di maniera. E meno male, aggiungerei io. Una lettura edificante dunque, a mio avviso. Non mi appassiona troppo il discorso sul fatto che il libro sia autoprodotto. In questa sede, ciò che m’interessa è la qualità della scrittura, indubbia.

Il coinvolgente (e infrequente) tu della narrazione, voce tanto vicina al diverso da chiamare “indigeni” i componenti della comunità normativa, tramite dolorose incursioni nella memoria viva di emozioni, fatti e impressioni che il tempo ricostruisce e rielabora, intesse un monologo interiore tramite una prosa destrutturata, frammentaria, a tratti lirica, caratterizzata da cesure, pause, interruzioni, frasi sincopate. Poche pennellate, un soprannome, una caratteristica bastano a tracciare un carattere o una condizione esistenziale. La struttura narrativa procede non per blocchi, bensì attraverso frammenti che a poco a poco si compongono e incastrano ottenendo un tutt’uno che acquista compattezza e unitarietà man mano che se ne esperisce la lettura, un ordito ben costruito, senza sbavature o ingenuità. L’iterazione, la ripetizione di formule, domande retoriche e risposte mai date, caricano la parola di un ritmo pregnante allo stesso modo dei significati/significanti. I vari personaggi, scampoli di umanità in cerca di redenzione e di un cantore, non prendono mai veramente forma rimanendo ammantati di un’aura di mistero e indefinitezza. L’eccesso nel racconto di vite estreme, quasi da film, viene stemperato da un lato dalla creazione di atmosfere retrò, tra marinai russi, cameriere esili e vinili di Edith Piaf, dall’altro da un lirismo, una specie di sentimentalismo si potrebbe dire, che diviene marchio di fabbrica.

I contenuti sono già enunciati nel titolo e sottotitolo: Vodka Siberiana, Lettere epiche e alticce, destinate a se stessa, o forse no. L’epicità non è altro che l’ardimento della clandestinità, di fughe e vite che si logorano in fretta, di quel personaggio depositario di un amore assolutamente fuori dall’ordinario, il siberiano cioè, di cui si narra la parabola, il passaggio sofferto di uomo che sperimenta la sua dannazione (mi auguro momentanea) o catabasi; e chissà quanti altri siberiani la cui storia si consuma, priva di testimoni, fra parchi di cittadine di provincia, accampamenti all’addiaccio e sordide celle. Le letture dichiarate nel corso della narrazione prediligono il polacco Marek Hłasko, il Limonov di Carrère, e ancora i russi Dostoevskij e Gogol, le scritture che definiscono una sorta di “epopea metafisica” tracciata dal fallimento comunista, non solo il crollo di un’ideologia, ma di un intero impero. La storia individuale, una storia piccola da osservare dalla panchina di un parco o dal letto di creature ammalate, immagini di martirio e sofferenza dimessa, si fa emblema di quella dei popoli.

Non esotismo nella rievocazione di uomini alla deriva tra porti ai confini estremi dell’Europa, quasi Africa, piuttosto rimpianto, il sentimento struggente di una lontananza, nostalgia di un altrove che si ritrova proprio nei racconti di uomini dagli accenti stranieri, pelle ambrata magrebina, occhi verde smeraldo dell’est, neri capelli russi. Si elabora piuttosto una poetica della negazione: l’estetica che nasce dall’abiezione, poco importa se si tratti dei casi personali oppure di quelli della storia che getta la sua impronta sui suoi figli sciagurati, “masse bibliche di esseri umani”, tra questi la categoria “uomo minore”. Le brutture, l’alcol, o meglio lo stato prolungato d’ebbrezza (Zapoj), una sorta d’incoscienza, sono tutti i movimenti obbligati delle stazioni vitali. Dalla Siberia alla Sicilia, poveri da curare, emendare, riscattare, il fascino di “intraducibili suggestioni” che creano una piccola rivoluzione nell’ordinarietà della vita di provincia, borghese, arroccata sulle proprie materiali, pusillanimi certezze. E quel mix unico, inconcepibile: i diseredati di Sicilia e quelli slavi. Ne so qualcosa, anch’io attratta dall’est, viaggi Bucharest-Palermo (i miei), amori lontani degli anni verdi, piccole case di campagna dai pavimenti in linoleum, maccheroni inzuppati in latte e zucchero, anziani ex funzionari ridotti in miseria a coltivare l’orto e allevare polli, oppure a cercare fortuna in Italia, la nuova diaspora europea. Ricordo bene. E l’orgoglio di badanti e operai con la loro bella laurea in ingegneria, professori un tempo, il lavoro nei campi. Gli studenti moldavi metà russi metà rumeni, studentati con letti a castello, mi parlavano della Transnistria. Sono stata pure a Kielce, Polonia. Ricordo l’albergo, lo stadio e boschi a perdita d’occhio. E ancora corriere maleodoranti stipate di sigarette e cetrioli in salamoia, lunghissimi viaggi in autobus, donne coraggiose, il lavoro che espia e rende degni, odore di borsch o ciorbă e quel senso di rovina, un naufragio che pur non appartenendoti ti pervade, una delusione aliena. Complicato trovare la chiave per parlare di tutto ciò. D’altronde, la scrittura è il modo più nobile per raccontare quello che la scrittrice definisce “la fregatura del mondo”. Proprio così. In fin dei conti, alla fine non si fa altro che raccontare la stessa vicenda: il passaggio su questa terra, quello individuale e quello dei nostri compagni di viaggio. Perlomeno, si cerca di afferrarne il senso. Chiamiamola pure consapevolezza. La vita – a volte ingiusta, altre foriera di buone novelle, il miracolo inaspettato e la meraviglia della maternità, per esempio, regalo e maledizione del “più sublime dei dolori”, l’amore –, attraversa lasciando i suoi segni, visibili soltanto a chi possiede occhi degni per vederli, s’intende. Ed ecco che nel moto di conoscenza della realtà che va dalla sua coscienza fino alla sua rappresentazione, si costruisce un senso altro, quello non immediatamente evidente ma capace di legittimare accidenti, eventi casuali, cadute rovinose, delusioni, ogni cosa insensata in apparenza. Il dolore, in particolare. È proprio nell’abisso dell’animo che matura e cresce l’ispirazione, non potrebbe essere altrimenti.

Un altro elemento per me molto interessante sono i riferimenti biblici (salmi, Giona), interesse in controtendenza rispetto a scritture più mainstream che denotano, in genere, una sorta di fideismo ateo, se così si può definire, che pure nei momenti di creazione del fantastico attinge più volentieri all’immaginario fantasy che non a quello giudaico cristiano. Per questo, ma soprattutto per un forte senso di spiritualità che pervade queste pagine, oserei definire questo un romanzo d’impronta cristiana, se non addirittura cattolica.

Di sicuro, c’è qui l’incontro con la preghiera, più volte evocata, lo sforzo di accettare quello che è e che è stato, “ogni sacrificio disumano è reso umano e passabile dalla vita stessa”, il dialogo con il sé più intimo, vero senso del tu, con la sua necessaria brevità, la misura e il giusto distacco di un tempo che tutto cristallizza e trasforma rendendo significative le stazioni di vita ineluttabili. Chiamiamolo pure destino.

Connessa alla pietà, “la pratica di sperare”, forza sovversiva e debolezza assieme che sconvolge e intacca la perfezione di una felicità sconosciuta e passeggera. La preghiera, un dolore che significa conversione, arriva da una radiolina, da un’altra simbolica stazione di un’umanissima via crucis. La carità cristiana è innanzitutto compassione (dal latino: [cum] insieme [patior] soffro) sublimata dalla parola, estrema possibilità di creazione di significato e bellezza. E la bellezza della scrittura come la misericordia tocca misteriosa chi la riceve.

Ognuno però si salva da solo, la strada è solitaria, anche la solitudine può emendare, è l’unico modo forse, portare sulle spalle una croce per volta, non di più. Quello è possibile. E poi la testimonianza d’amore, un caso eccezionale, incarnata da figure eteree, creature votate alla sofferenza, dal corpo corruttibile e lo spirito stentoreo. Sacrificio, a costo di errori e defezioni, e redenzione che equivale a salvezza, perlomeno “la possibilità di una pace”, di sicuro il perdono. Male e bene, l’eterna lotta. Un senso di sconfitta aleggia continuamente, eppure la luce sorge sempre dall’ombra, la resurrezione dalla morte. Infine, la profezia del poeta: la vittoria. Ogni tanto avviene questo: che un testimone racconti l’indicibile, che dia voce agli invisibili. E il suo racconto diventa letteratura, una preghiera da restituire al mondo.

Giusi Sciortino

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