Contro la resilienza

Per una nuova igiene della mente, ci sarebbero parole ed espressioni da decontestualizzare, soprattutto quelle del biennio 2020-2021: fragile, tu che faresti?, regole, egoismo, andrà tutto bene/male, coprifuoco, lockdown, sanificare, santificare, nuovo modo di vivere/pensare, questa è una guerra, nemico invisibile, isolamento, fare questo oggi per la gallina domani. E poi ci sono parole che ripetute ossessivamente da robot sparaballe, ma pure dalla gente comune, hanno rotto l’anima, in particolare certi –ismi e alcune –enze, tipo: buonismo, populismo, resilienza. Io proporrei invece: locupletazione, paciscente, miosotide, illico, ciclopentanoperidrofenantrene. C’è questo continuo bisogno d’infilare parole poco usate in contesti in via di definizione snaturandone il significato originario in un processo innaturale, forzato d’imposizione che obbliga il parlante perplesso, riluttante ad accettarne il nuovo utilizzo. La lingua stessa è un sistema in continua evoluzione, certo, ma le vie della manipolazione sono infinite. Tra queste parole ce n’è una che mi irrita in particolar modo: Resilienza. Termine tecnico in origine, oggi diventato di moda, una parola jolly servita in ogni salsa, buona per tutte le stagioni. Ho il sospetto che ogni volta che qualcuno sgamato, manipolatore narcisista, rampante in carriera, arrampicatore sociale e chi più ne ha più ne metta voglia rifilarti qualche fregatura, la infili lì per farti sentire inadeguato, in colpa, sbagliato. E allora eccoti servito con un bel «ma che dici? Devi essere RESILIENTE!». Ce l’hanno rifilata pure nei corsi di formazione (tutto elettronico, e-learning, macchine), la ripetono nei TG, ci hanno scritto su trattati, hanno elaborato perfino un Piano Nazionale di Ripresa e RESILIENZA. L’orrore!

Che belli i tempi in cui R. era usata per descrivere una proprietà dei materiali, poi è stata appioppata agli esseri umani e lì è cominciata la fine: tutti a pappagallo, resilienti alle spalle degli altri. Ogni tempo ha i suoi slogan: a qualcuno è toccato il latino «mi spezzo ma non mi piego» (Frangar, non flectar), ad altri il «ti spiezzo in due» da guerra fredda pugilistica, a noi la stupida R. E comunque, adattarsi a ogni cosa caduta dall’alto potrebbe essere una cosa positiva in caso d’imposizioni ingiuste. La perdita di capacità di giudizio agevola l’accettazione passiva di soprusi e prepotenze. Mi chiedo: quando c’è in atto un cambiamento svantaggioso, meglio adattarsi supinamente o resilientemente oppure osservare, ragionare, eventualmente resistere? Le parole sono solo parole, eppure descrivono e plasmano il mondo. Auspico un movimento anti-resilienza, una nuova forma di resistenza alla bruttezza, a quella del linguaggio, tanto per cominciare. L’impoverimento della lingua è la spia della decadenza culturale.

6 commenti

  1. L’introduzione ossessiva del termine nasce secondo me proprio in contrapposizione a “resistenza”: secondo la sovrastruttura culturale dominante, oggi non si deve resistere, il che implica una opposizione all’accettazione supina, ma piegarsi come se nulla fosse, per tornare un domani indefinito “più belli e più potenti che pria”.

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  2. Certe parole che si caricano di presunte emergenze di significato implicano una ridifinizione dell’acqua calda che si esurisce nel lessico del nuovismo (personamente sono allergico a “proattivo”). Interesante è misurarne l’espolosione, per es. qui: https://books.google.com/ngrams/graph?content=resilienza&year_start=1900&year_end=2019&corpus=33&smoothing=3&direct_url=t1%3B%2Cresilienza%3B%2Cc0#t1%3B%2Cresilienza%3B%2Cc0
    Un primo picco di stereotipia probabimente tecnico, e contenuto, e poi l’attuale riversamento nel linguaggio comune.
    Un saluto.

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